Maurizio Sarri e “la libertà spaesante”
“Rimasi a Figline e mi spaccai tutto: addio carriera, ma non sarei andato lontano comunque. Non ho rimpianti e in fondo ero già allenatore a 16 anni.”
Inizia così, nel segno della sventura, il lunghissimo viaggio che avrebbe condotto Maurizio Sarri alla ribalta della scena nazionale, alla conquista di Napoli e dei napoletani, nonché degli esteti del pallone in toto; che lo avrebbe posto sotto i riflettori dell’intero panorama italiano per la rivoluzione copernicana apportata nel microcosmo calcistico. Su di lui e sulla sua favola si è detto molto, forse troppo. Ma, ironicamente, sembra essere sfuggito a tanti l’essenza della sua personalità. I media si sono focalizzati su questioni minimali, eminentemente d’immagine: l’insistenza sul vizio del fumo, sulla tuta preferita al vestito elegante, sulla tendenza compiaciuta al turpiloquio di bukowskiana memoria (come si sa i suoi scrittori preferiti sono proprio Fante, Bukowski, Vargas Llosa). Tutto ciò sarebbe indice di un ribellismo malcelato, di un “maledettismo” vanamente – o ridicolmente – ostentato, provocatorio; di una nostalgia che tenta di aggrapparsi ai feticci di un calcio (o più in generale di un mondo) genuino e perduto nell’appiattimento massificante della modernità. Anche l’ammirazione del modello sacchiano sembrerebbe, in quest’ottica deformata, quasi una parvenza d’assoluto; come un baluardo a cui aggrapparsi disperatamente (simile, in ciò, alla “phrase écrite” di Flaubert) per osteggiare il pensiero dominante dall’interno e non precipitare nel baratro della spersonalizzazione. Un credo “metafisico”, insomma, che si ispirerebbe a quel modello rigettato e abiurato da Brera in primis (noti i suoi strali contro il “profeta di Fusignano”), oltre che dai suoi innumerevoli (imperituri) epigoni, tutti adepti di quella setta “mistica” e metastorica dal nome proteiforme: “catenaccio”, “tatticismo”, “cholismo” ecc. In altri termini, si è messo molto l’accento sulla pars destruens del suo credo, sulla insofferenza (per tanti quasi somatizzata nelle pieghe del suo volto) nei confronti della modernità invasiva, ignorando però i punti cardine di un pensiero che, con un’analisi più approfondita, appare sì complesso, ma coerente in tutte le sue parti; e rivoluzionario, più che sovversivo:
Non scherziamo veramente. Sono figlio di operai, ciò che percepisco basta e avanza. Mi pagano per fare una cosa che avrei fatto la sera, dopo il lavoro e gratis. Sono fortunato
Figlio di operai nato proprio a Napoli, come un segno del destino. Anzi, più precisamente, a Bagnoli, il quartiere dell’Italsider, della Cumana, di un’umanità non stereotipata. E proprio su Bagnoli – che come un marchio sulla pelle deve aver lasciato una traccia indelebile nell’immaginario (e nell’inconscio) sarriano – bellissime sono le riflessioni di Marco Viscardi (http://www.ilnapolista.it/2016/08/bagnoli-quartiere-confine-liberta-spaesante/) che mi preme riportare, perché incredibilmente pertinenti col nostro discorso:
Quartiere di confine, visto da via Napoli, Bagnoli assomiglia a Genova, si estende in lunghezza, il sole ne evidenzia il colore rosso, l’arancione dell’insieme, l’affastellarsi degli edifici di un posto nato per la villeggiatura di napoletani del tempo passato, quando tutto era campagna e il mare pescoso e non ancora avvelenato. Dal dentro, Bagnoli è l’insinuarsi della provincia nella città, Viale Campi Flegrei è un posto dove il tempo è immobile come le pale degli incongrui mulini che non so quale amministrazione ha voluto metterci per ricordare una arcana vita di campi, oramai dimenticata; a Viale Campi Flegrei ci sono i vecchi che parlano, e parlano di tutto, figli di un quartiere operaio non hanno dimenticato il furore dell’attualità, sono nel nostro tempo senza leggere i giornali, si sentono i discorsi che si alternano e si parla di gay pride, di brexit, di de Magistris in vertiginose crasi spazio temporali per cui, e sono testimone, si depreca Ferlaino per aver venduto Higuain e si ricorda che pure Mussolini ebbe paura del giudizio divino – all’affermazione segue una bestemmia vernacolare che per rispetto ai lettori della classe media non trascrivo. Un bazar deflatorio dove l’anacronismo è linfa vivente, perché noi residuali non viviamo un solo tempo, ma li viviamo tutti confondendoli. E non siamo come l’orologio rotto che dà due volte al giorno l’ora giusta; semmai l’ora giusta la scartiamo di lato, come una delle possibili ore in cui si svolge la nostra vita.
[…]
Come Procida, e forse come tutte l’area flettera, Bagnoli è fuori fase, vive di una ritualità propria che è anche l’esercizio di una libertà personale e non codificata; è casa, responsabilità, finestre che vanno chiuse quando esci, bollette, gas, pulizie da fare e allo stesso tempo è libertà spaesante: culla di una umanità residuale anch’essa, ma non stereotipata, non freak, non bio-vegan, con cui la sera puoi parlare di tutto, puoi mostrarti ubriaco, bilioso, malinconico, perché a sua volta è ubriaca, biliosa, malinconica.
La concezione sarriana della figura dell’allenatore, e forse della vita, è, de facto, l’essenza di una”libertà personale” e “non codificata“; come la concrezione materiale di un anacronismo, non ostentato provocatoriamente per far scalpore o scandalizzare il pubblico, ma connaturato, così sentito nella pelle da trovare naturalmente attuazione. A me pare, dunque, che nella sua professione Sarri abbia realmente trovato (come a pochissimi nella vita accade) la realizzazione della propria individualità, la possibilità di essere pienamente libero; e nella sua concezione del calcio una missione, come il prolungamento e la proiezione di se stesso, e della sua ideologia (etica e politica):
Sarri è molto diverso da Sacchi al di là delle infatuazioni. Uno giocava a utilizzare gli spazi da dietro (Sacchi), l’altro cerca spazio nel mezzo. Non è un’evoluzione. Una è stato una specie di rivoluzione di destra, la squadra al comando, il principe è il tecnico, il suo comandamento. Quella di Sarri mi sembra più una rivolta di popolo, due tocchi e via, un leader in panchina confusionario ma logico, dedito più alla causa che alla storia.
Giustissime le considerazioni di Sconcerti (http://www.ilnapolista.it/2016/09/sconcerti-sacchi-rivoluzione-destra-sarri-rivolta-popolo/) che illuminano un punto relativamente oscuro – o tendenziosamente oscurato, come mi permetto di affermare con vis militante e campanilistica – del suo retropensiero: lo spirito incredibilmente (e non sciaguratamente) sistematico (e politicamente affine, considerati anche i credi politici dell’uomo, alle grandi esperienze “di sinistra”) del suo calcio stesso. Concezione che ha certamente i suoi limiti e le sue possibili derive (come le “ragioni superiori del partito” – per continuare la metafora politica – alle quali tutti devono attenersi in modo perfetto, anche solo per ottenerne la tessera, o il rischio stesso dell’arroccamento nella necessità eterea della purità formale) ma che mi sembra sostanzialmente organica e democratica. Non è davvero facile nello sport, nel calcio ancor di più, trovare un sistema così articolato e congegnato nel dettaglio, studiato maniacalmente, in cui il singolo possa far parte armoniosamente di un gruppo e sia funzionale al gruppo stesso (l’unico punto oscuro è, forse, la gestione di Gabbiadini), in cui nulla o quasi sia lasciato all’estemporaneità, al caso. Armoniosamente perché, ad uno sguardo attento, i giocatori sembrano felici di farne parte (“il sorriso”, la “felicità di giocare a calcio” è l’ingrediente principale, il carburante necessario e preliminare, la condicio sine qua non all’ideazione dell’organigramma sarriano, come da lui stesso dichiarato nelle interviste delle prime fasi): aderiscono con convinzione alla causa e ne sono profondamente persuasi al punto da difenderla strenuamente – e pubblicamente – anche nei momenti di crisi. Cosa tanto più rara in un calcio che ha smarrito se stesso, che ha perso le “bandiere” e (quasi) tutti i suoi simulacri totemici, divenendo la più insignificante delle merci. La vera domanda, dunque, che a mio giudizio ci si dovrebbe porre è la seguente: come può riuscire l’uomo di Figline ad essere un “generale” così amato e rispettato e a creare una tale armonia con un sistema da lui imposto quando, per definizione, ad un’imposizione collettiva corrispondono sempre, statisticamente, malumori e rifiuti reazionari?
“Con la competenza”, qualcuno potrebbe rispondere. Eppure, la “competenza” non fu certo sufficiente al “profeta” Sacchi per rendersi amato dai suoi (anzi, semmai era odiatissimo), né allo stesso geniale Guardiola (spesso mal sopportato dai suoi giocatori per il suo integralismo). La risposta probabilmente è da scovare nella personalità dell’ uomo, nella sua storia e nel suo modo di porsi, più che nell’allenatore in senso stretto.
Come si sa, la carriera da manager di Sarri nasce da un salto nel vuoto, e da un autentico, questo sì e inequivocabile, rifiuto (à la bukowski, diremmo). Da calciatore, Sarri ha giocato (al suo apice) fra i dilettanti. Era un “difensoraccio”. Uno di quei mastini che ti stanno col fiato sul collo. La storia vuole che ci fossero degli attaccanti che si davano malati per non giocare a costo di non farsi marcare. Era un calcio diverso, la zona non esisteva, si marcava a uomo. Ai tempi, però, non si occupava solo di calcio, per vivere doveva fare altro, ed ecco che Maurizio, studente di Economia e Commercio, lavorava in Banca per il Monte dei Paschi. Anche lì un po’ di carriera la fece. Si occupava di transazioni fra istituti bancari e andò a lavorare in Germania, Inghilterra e Lussemburgo. Questa esperienza, come egli stesso riconosce, è stata importante per “aver appreso il valore dell’organizzazione e della capacita decisionale”. È andato avanti tra banca e campetti di provincia per 11 anni, da Stia fino al Sansovino nel 2001, in Eccellenza. Lì, capisce che quella è la sua strada e decide, follemente più che temerariamente, all’età di 40 anni, di abbandonare il Monte e il “posto fisso”, l’ “abito” e l’ imposizione dell’omologazione, inseguendo la sua chimera. Sarri è il classico esempio di chi non ha mai smesso di credere nei suoi sogni e che, alla fine, ce l’ha fatta. La tuta, allora, da un certo punto di vista, non è un simbolo negativo (mancanza di abito/opposizione alla norma) o un oggetto desueto; ma la figurazione materiale del suo “io”. Quasi come, azzardando un paragone più che avventuriero, l’occhio di Mattia Pascal, simbolo sterniano della devianza del personaggio dai canoni prestabiliti. Un “io”, quello di un uomo visceralmente e morbosamente di campo, che spesso nella vita ha dovuto soffocare e sottacere in nome della ragion di stato (qui il paragone con Adriano Meis è, però, meno calzante). Ma soprattutto rappresenta la consapevolezza di ciò che ha scelto di essere, la fede che ha deciso di abbracciare contro ogni logica piccolo-borghese. Un uomo che è stato giocatore mediocre e che vede i propri giocatori come un tesoro inestimabile (e perciò rispettato e benvoluto), un allenatore che non impone dogmi, ma che convince con la competenza e con l’ esempio (forse, indirettamente, con la storia del suo vissuto “romanzesco”, da bildungsroman); e che non è tale nonostante i suoi tratti caricaturali (c’è chi, come De Laurentiis, lo ha definito “maschera eduardiana”) e le sue idiosincrasie, ma che lo è proprio grazie al suo modo di essere, parte integrante stessa – la parola chiave è sempre l’insieme, la somma delle componenti – del suo modo di insegnare e intendere il calcio, del suo essere leader.
P.s. Tifo Napoli, ma lo si può comprendere facilmente. Atto “metalettico”, questo, che può essere un’ autocondanna all’efficacia stessa (molto ipotetica) dell’argomentazione. Inoltre, per amor di chiarezza, è necessario specificare che l’analisi effettuata sia slegata totalmente dalla cronaca sportiva (recente e non) e che essa si sia invece preposta di indagare un (retro)pensiero, oltre che le ragioni sottese a quell’entità astratta del calcio dal significato polisemico: “il gioco”. Un sistema di valori condivisi, di automatismi collettivi e sincroni ben riconoscibili, che in tale sport è sempre complesso da scovare per plurime motivazioni e che spesso necessita di particolari condizioni, quale per esempio un leader estremamente logico e rigoroso, perché esso possa vedere la luce. Mi preme, infine, scusarmi con Marco Viscardi per aver riportato le sue illuminanti riflessioni (contenute in un pezzo serissimo e intellettualmente impegnato che consiglio a tutti) in un articolo affatto “intransitivo”, risibile, al confine tra mitografia e autoparodia.
Guido Scaravilli