Alieni, robot, mostri: come abbiamo imparato ad accettare l’alterità
Nel 1979, Ridley Scott firma la regia di uno dei più importanti titoli del cinema di tutti i tempi, a metà tra l’horror e la fantascienza, destinato ad essere fine e principio insieme: iniziatore di una fortunata saga, Alien conclude anche un’era e con essa il modo in cui guardiamo agli extraterrestri. La creatura xenomorfa del film è una delle più temibili che siano mai apparse sul grande schermo, ma, da quel momento in poi, i suoi simili sarebbero stati decisamente meno sanguinari e bellicosi. La nuova epoca inaugurata sul finire degli anni Settanta – inizi anni Ottanta si stava preparando a rivedere i suoi rapporti con l’alterità.
Quell’Alien non è soltanto raccapricciante e mostruoso, è un essere estremamente e irragionevolmente spietato. Il fatto che non si riesca neppure a coglierlo in un solo sguardo tutto in una volta ce ne consegna una forma impercettibile e incompleta. È l’eredità che gli lascia in consegna mezzo secolo di cinema di fantascienza, abituato a presentarci il Diverso non solo come difforme, ma anche come spaventoso, in un’ottica che esclude categoricamente qualunque riappacificazione e poggia sul principio del “noi o loro“.
Appena due anni prima, però, Incontri ravvicinati del terzo tipo aveva mostrato che una comunicazione è in realtà possibile. Gli alieni del cult diretto da Steven Spielberg – pur essendo artefici di una serie di rapimenti – dialogano con gli esseri umani sulla base di una sequenza musicale nella celeberrima scena che anticipa la conclusione, poco prima, cioè, di restituire all’umanità i soggetti precedentemente prelevati. L’angoscia generata dall’apparizione delle navette spaziali viene così ricondotta in una dimensione emozionale di segno positivo, e persino le vittime di rapimento appaiono come i campioni privilegiati di uno scambio interculturale, peraltro assolutamente innocuo.
Nel 1982, ancora Spielberg porta a compimento il processo di integrazione con E.T. l’extra-terrestre, in cui l’alterità è assimilata in un’omogeneità diffusa che può esistere nonostante la diversità. Alieni ed umani si riconoscono in virtù delle reciproche differenze, che sono incancellabili e ineludibili, eppure non impediscono la coesistenza pacifica. Non è più il “noi contro di loro” messo in atto dal cinema di fantascienza tradizionale, come nei classici Ultimatum alla Terra (1951) e La guerra dei mondi (1953), ma è il “noi e loro” insieme. Gli alieni, strani, deformi, incomprensibili e diversi che siano, in fondo ci assomigliano.
Questo tentativo di riconciliazione ad opera del cinema di fantascienza più recente viene a sanare una condizione di alienazione che non interessa esclusivamente i nostri rapporti con la razza aliena. Si tratta di riappacificare l’essere umano con tutta la materia biologica vivente e, più in generale, con tutti gli esseri dotati di vita propria, naturale o artificiale. Dite la verità, guardando Blade Runner (1982) avete provato un moto di compassione per Roy Batty e i suoi compagni replicanti, vi siete dispiaciuti per la loro miserabile fine, magari vi siete chiesti che cosa abbiano fatto di così tremendo per meritare la morte. Il ribaltamento dei ruoli appare con tutta la sua evidenza in una pellicola del 1985 diretta da Joe Dante, Explorers, in cui i visitatori dello spazio sono nientemeno che dei ragazzini, e agli alieni tocca giocare il ruolo degli emarginati: costoro hanno una conoscenza del nostro pianeta basata interamente sulle immagini intercettate alla tv, grazie alle quali capiscono che dell’essere umano non ci si può fidare. Il trattamento che il cinema di fantascienza classico ha riservato agli alieni li induce a credere che i veri cattivi abitino sulla Terra.
Questo non significa, però, che i marziani abbiano rinunciato del tutto ai loro propositi di dominazione, o che i robot non rappresentino più una minaccia alla nostra incolumità (anche se poi bisognerebbe andare a vedere quanti di questi modelli, negli ultimi tre decenni, appartengano a dei remake o a film che traggono comunque ispirazione da opere precedenti). Significa, semmai, che le creature aliene, robotiche, o persino un Gremlin, non devono necessariamente essere ostili e orripilanti in quanto diverse. Da questo punto di vista, la saga di Star Wars ha elaborato un universo in cui è naturale concepire umano e non-umano in sintonia e sullo stesso piano.
La vera rivoluzione, infatti, consiste nell’ammettere che noi non siamo più il metro di paragone. Spielberg, Carpenter, Lucas, Zemeckis ci hanno detto che un incontro con gli alieni è possibile, che al di là di tutto non sono poi così bizzarri, e che potrebbero persino essere uguali a noi anche di fuori. Ma nel post-1980 la fantascienza può spingersi fino ad affermare che non sono loro che assomigliano a noi, ma siamo noi che assomigliamo a loro. In Liquid Sky (1982) non vediamo mai gli alieni che atterrano a New York, in compenso assistiamo a una sfilata di personaggi squilibrati, insensibili, in una parola alienati. In Automata (2014) i robot disubbidienti costituiscono, invece, l’unica occasione di veder riemerge sullo schermo un barlume di umanità, che si rifrange su quegli esseri metallici come se fossero la parte migliore di noi. In District 9 (2009) si passa addirittura alla metamorfosi umano-alieno, l’espediente che riesce a dimostrare meglio di qualunque altro che potremmo trovarci dall’altra parte e diventare quelli brutti ed emarginati. Sempre che non lo siamo già.
A ben pensarci, questa nuova rappresentazione del diverso è l’esito naturale di un cambiamento avvenuto prima nella società. Se ogni epoca ha la sua cultura, e ogni cultura una sua espressione, la fantascienza degli ultimi trent’anni si fa portavoce di una sensazione comune di alienazione e diversità, che viene adesso accettata e raccontata per quello che è. Perciò, la prossima volta che un alieno viene a farci visita, ragionate prima di perdere la calma e cominciare a gridare. Perché potrebbe essere venuto a dirci che gli alieni siamo noi.
Andrea Vitale