L’intervista: Gianfranco Cabiddu, regista de La stoffa dei sogni
Una piccola compagnia di attori e dei detenuti in attesa di essere condotti in carcere viaggiano a bordo di una nave, colta in mare aperto da una violenta tempesta e scaraventata sulle coste di un’isola. Per una fortuita coincidenza, è proprio quell’isola su cui sorge il carcere che attende i prigionieri. L’occasione, per loro, è buona per darsi alla fuga, e per camuffarsi nella compagnia pretendendo di passare per teatranti. Il direttore del penitenziario, non potendo in alcun modo verificare se essi siano realmente chi dicono di essere, decide di metterli alla prova, imponendogli la realizzazione di uno spettacolo che dimostrerà chi siano i veri attori.
La stoffa dei sogni, il nuovo film di Giafranco Cabiddu, prende a prestito del materiale da Shakespeare e la sua Tempesta, da una parte, e De Filippo – col quale il regista ha lavorato agli inizi della sua carriera – e L’arte della commedia dall’altra. Sono intuizioni e suggestioni che si situano a più livelli, alcuni più immediati, altri evidenti ma incastonati con sapienza all’interno della struttura del film. Si potrebbe cominciare dal titolo, mutuato dalla famosa citazione shakespeariana, e dal nome del protagonista Oreste Campese, come il personaggio di Eduardo, per poi proseguire col temporale che provoca il naufragio, e con gli attori (quelli veri e i presunti tali) incaricati di dar vita proprio a La tempesta. Si arriverebbe, infine, a parlare dell’illusione che trasforma il reale, della capacità di manipolare, mistificare e imbrogliare le carte in tavola per rendere allo sguardo una nuova realtà, temi rintracciabili tanto nell’opera del bardo immortale quanto in quella del maestro napoletano. Messi alla prova, i naufraghi sono tutti costretti a recitare una parte, chi per riappropriarsi della propria identità, chi per conquistarne una nuova: tutti, però, in questo piccolo teatro improvvisato sono artefici e testimoni di un modo di recitare che appartiene alla nostra tradizione, che rielabora un testo di quattrocento anni fa, passato per le mani di un drammaturgo del secolo scorso e ritornato attuale ancora una volta.
A fare da sfondo – al film come alla messa in scena – è l’isola dell’Asinara, a dire il vero ben più che un semplice sfondo, se sembra quasi incarnarsi nella figura di un pastore che è tutt’uno con l’isola, la sua storia e il suo presente, a tal punto che anch’egli è isola a sua volta, nel momento in cui apre bocca e dimostra di parlare una lingua che nessuno più pare comprendere. Calibano è la quintessenza mitica e irrazionale di un passato primitivo, relegato in un’epoca di cui non si ha più memoria né tracce, se non lui stesso, unico superstite di quell’età che ricorda con nostalgia. Questa terra, quella di Gianfranco Cabiddu, originario di Cagliari, assurge alla posizione privilegiata di spettatore del tempo che passa e che cambia, come cambiano le cose sull’isola dopo l’arrivo dei naufraghi, ma non intacca la forza e la magia di un teatro che è più vitale che mai. Ed è proprio col regista che abbiamo scambiato quattro chiacchiere a proposito della sua ultima fatica, nelle nostre sale dal 1 dicembre, con un cast che vanta la presenza di Sergio Rubini, Ennio Fantastichini, Teresa Saponangelo, Renato Carpentieri e tanti altri.
Cominciamo da Eduardo De Filippo, a cui il film è dedicato. Quand’è avvenuto il vostro primo incontro?
«L’ho incontrato quand’era professore di drammaturgia all’università, ed è lì che è iniziata questa collaborazione. In qualità di fonico, mi sono occupato anche di ciò che riguarda il suono, in questi quattro anni di collaborazione, durante i quali ho seguito le sue regie teatrali, delle rappresentazioni che metteva in piedi con i suoi studenti, e insieme abbiamo effettuato anche la registrazione de La tempesta di Shakespeare. Lui ha voluto registrare La tempesta recitando tutti i personaggi, e cambiando voce per ognuno di essi, per cui c’è voluto un po’ di tempo per portarla a termine. Questo testo mi è rimasto nel cuore, e dopo tanti anni, quando l’isola dell’Asinara è diventata un Parco, ho iniziato a ragionare su come portarlo al cinema, insieme all’enorme intuizione di Eduardo, che era un capocomico, come Shakespeare, due che scrivono per la scena, che hanno come prima istanza il rispetto del pubblico. La loro scrittura è fatta di parole che devono essere recitate. Ho voluto rendere omaggio anche a lui, a cominciare dalla possibilità di recitare Shakespeare e di essere fedele al testo in una maniera giocosa e lieve».
Ed è Eduardo a cantare La canzone di Calibano che si sente alla fine, mentre scorrono i titoli di coda.
«Sì, è una canzone che è stata registrata a quel tempo, a casa di Eduardo, con l’accompagnamento di una chitarra. Con grande maestria, Antonio Sinagra ha rivestito questo nastro di un’orchestrazione fatta a posteriori, immergendo la voce di Eduardo in un arrangiamento in cui si sentono suonare tanti musicisti, e che dunque la rende potentissima».
La stoffa dei sogni segna anche l’ultima apparizione di Luca De Filippo sul grande schermo. Come è nata la vostra amicizia? Vi siete consultati durante la stesura della sceneggiatura e la lavorazione del film?
«Frequentando Eduardo quasi ogni giorno, in quel periodo – per la registrazione della Tempesta ho abitato proprio a casa sua – ho conosciuto anche Luca. Dopodiché ho curato il suono per il Don Giovanni portato in scena dalla sua compagnia, con la regia di Luca che, poi, dalla stessa registrazione che avevo fatto con Eduardo, ha ricavato una versione per uno spettacolo realizzato con la compagnia Colla, con le marionette che si muovevano sulla voce del padre. Quando ho avuto l’idea per questo film gli ho dato il copione e gli ho chiesto di recitarvi una parte. Lui, però, era impegnato in teatro, per cui ha potuto fare soltanto un cameo. Ho scritto quella parte proprio per lui – è il capitano della nave che fa quel saluto finale, che è un saluto ad un modo di fare teatro. Idealmente, il film è dedicato anche alla memoria di Luca».
Parliamo dell’ambientazione: aveva in mente fin dall’inizio di collocare l’azione nell’Asinara? Perché sembra quasi che, con questa film, abbia voluto dirci qualcosa anche di quella terra, e naturalmente della Sardegna.
«Assolutamente sì. Tutto è nato dopo la mia visita all’Asinara. Mi ci sono recato quando è diventata un Parco, e in quell’occasione mi sono sentito immerso nell’isola descritta da Shakespeare, un paradiso, ma anche selvaggia e terribile per certi versi. Le parole stesse di Shakespeare, nella bocca di Calibano, diventano un’invettiva contro il colonialismo. L’isola, infatti, è stata spopolata, i suoi abitanti evacuati per far sorgere il carcere, perciò le parole del poeta tornavano utili anche per parlare delle condizioni dell’isola stessa e della Sardegna. Ho voluto usare la figura di Calibano non in chiave terribile, bensì innamorata, dolorosa: lui prende coscienza della sua condizione quando assiste allo spettacolo teatrale, e dal teatro capisce qualcosa di sé in maniera intuitiva e istintiva».
A proposito di Calibano, da cosa dipende la scelta di non inserire i sottotitoli durante i suoi dialoghi, nonostante abbia pochissime battute?
«Quello che lui dice, in realtà, è molto fedele a Shakespeare, pur parlando in sardo. Anche i camorristi chiedono al capocomico di volgere il testo da interpretare in una lingua che possano parlare facilmente (ecco perché La tempesta viene recitata in napoletano, ndr), per cui mi affascinava ancora più quest’idea dell’incomprensibilità. Siccome gli altri non lo capiscono, mi è sembrato giusto lasciare tutto così. In fondo, non dice nulla di fondamentale per il racconto, è più importante che si intuiscano i suoni che produce, il suo atteggiamento. E poi, alla fine, lo capiscono tutti quando, nel teatro, fischiando emette il verso degli uccelli».
C’è una scena, o anche più, a cui è particolarmente legato?
«Forse la parte a cui sono più affezionato riguarda la costruzione delle prove. Da regista, sento che mi appartiene, e mi ha consentito di rendere omaggio anche alla vera messa in scena di uno spettacolo. Quella parte mi ha divertito molto, perché ha divertito anche gli attori, che si sono sentiti liberi di inventare e di ricreare una situazione quasi reale».
Ci parlerebbe anche dei suoi progetti futuri?
«Al momento sto lavorando al montaggio di un film che abbiamo girato quest’estate. Si tratta di una co-regia con Mario Tronco de Il flauto magico, secondo l’Orchestra di piazza Vittorio. Anche qui sono alle prese con la musica. Sono appassionato di musica. Da dieci anni curo un festival di musica per il cinema, mi affascina lo sposalizio tra queste due arti. Ci sarà anche la partecipazione di Fabrizio Bentivoglio. È un lavoro un po’ al servizio di Mozart, come La stoffa dei sogni è stato al servizio di Shakespeare e di Eduardo».
Andrea Vitale