Il “caso” Firefly e l’esistenzialismo di “Objects in space”
Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovermi poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive. Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno, quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne son sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea sulle mie mani.
Jean Paule Sartre, La nausea
La nausea (1938) è un romanzo dalla struttura diaristica di Jean-Paul Sartre scritto nel 1932 e pubblicato nel 1938, dopo numerose e radicali revisioni. Il narratore (omodiegetico) è Antoine Roquentin, l’alter ego dello stesso Sartre, del quale condivide in toto pensieri e riflessioni (anche se da una prospettiva rigorosamente teorica è deontologico sempre distinguere il teller character e l’entità autoriale dell’universo extralinguistico). Perfino la città in cui egli vive, Bouville, non è altro che una rappresentazione (nemmeno troppo velata) di Le Havre, dove Sartre viveva – e insegnava filosofia al liceo – mentre scriveva il romanzo, nei primi anni ’30. La citazione riportata si ritrova a inizio libro, dove Roquentin, che nella finzione narrativa è un giovane studioso di storia impegnato in una tesi su un avventuriero del XVIII secolo, rimane particolarmente turbato da un fatto da nulla: uscendo dall’albergo in cui alloggia, mentre sta andando verso la biblioteca, si imbatte in una cartaccia che è intenzionato a raccogliere, senza peraltro riuscire a farlo. Un dettaglio così marginale a cui inizialmente non bada e che egli stesso non riporta nel proprio diario giornaliero, salvo poi ritornarci col pensiero retrospettivamente, incapace di disfarsi della sgradevole sensazione provata.
Ma, da allora in poi, l’esperienza tende a reiterarsi: dopo il passaggio di un ufficiale che ha rischiato di pestarlo, Roquentin si avventa, infatti, su un foglio di quaderno strappato e rovinato dalle intemperie, in cui si scorge la scritta: “Dettato: il Gufo bianco”. E non riesce a raccoglierlo per l’improvvisa sensazione che quel foglio gli comunica. Cerca di non pensarci, di ribadire a se stesso che gli oggetti sono solo oggetti, cose morte. Eppure, Roquentin non riesce a non esserne intimamente scosso, perturbato. Per lui gli oggetti non sono morti, sono bestie vive, ne prova repulsione e non è in grado di liberarsi di una sensazione di dissociazione permanente con il mondo esterno.
Le pagine de La nausea, come si sa, sono permeate dall’esistenzialismo, filosofia che insiste sul valore specifico dell’individuo e sul suo carattere precario e finito, sull’insensatezza, l’assurdo, il vuoto che caratterizzano la condizione dell’uomo moderno, oltre che sulla solitudine di fronte alla morte in un mondo che è diventato completamente estraneo, se non ostile alle sorti umane. Sarebbe estremamente riduttivo, però, definire (e incasellare brutalmente) il romanzo come una sua semplice attuazione estetica. Ciò in primo luogo per la non univocità del termine – che anzi è profondamente polisemico – “esistenzialismo”, e per la querelle animosa in seno alla stessa corrente filosofica tra il pensiero di Sartre (specie in L’essere e il nulla) e quello di Martin Heiddeger, autore di un libro monumentale, tra i più importanti del XX secolo, L’essere e il tempo. Ma anche perché non è davvero mai rispettoso in sede critica, per la buona letteratura e ancor di più per i capolavori, adoperare simili atti (fraudolenti) di semplificazione esegetica e – mi sia concesso il termine – manualistica. Ragione per cui, ai fini una corretta interpretazione del libro – e per un’analisi sommaria della sua impalcatura diegetica, nonché dei suoi significati reconditi – sarà per più produttivo ricorrere alle riflessioni dello stesso Sartre, che egli pose in epigrafe alla prima edizione:
Dopo aver viaggiato a lungo, Roquentin si è stabilito a Bouville, tra feroci persone dabbene. Abita vicino alla stazione, in un albergo per commessi viaggiatori e scrive una tesi di storia su un avventuriero del XVIII secolo, il signor de Rollebon. Il lavoro lo porta spesso alla Biblioteca municipale dove il suo amico Autodidatta, un umanista, s’istruisce leggendo i libri in ordine rigorosamente alfabetico. La sera Roquentin va a sedersi a un tavolino del “Ritrovo dei Ferrovieri” ad ascoltare un disco – sempre lo stesso: Some of These Days. E, a volte, sale in camera al primo piano con la padrona del bistrot. Da quattro anni Anny, la donna amata, è scomparsa. Pretendeva sempre di aver dei “momenti perfetti” e si sfiniva immancabilmente in sforzi minuziosi e vani per rimettere insieme il mondo intorno a lei. Si sono lasciati; attualmente Roquentin perde goccia a goccia il proprio passato, sprofondando sempre più in uno strano e oscuro presente. La sua stessa vita non ha più senso: credeva di avere avuto delle belle avventure, ma non ci sono più avventure, ha solo delle “storie”. Si attacca al signor de Rollebon: il morto dovrebbe fornire una giustificazione al vivente.
Allora comincia la sua vera avventura, una metamorfosi insinuante e dolcemente orribile di ogni sensazione; è la Nausea che vi prende a tradimento e vi fa galleggiare in una tiepida palude temporale: È stato Roquentin a cambiare? O è stato il mondo? Mura, giardini e caffè vengono bruscamente assaliti da nausea; altre volte Roquentin si sveglia in una giornata malefica: qualcosa è in putrefazione nell’aria, nella luce, nei gesti della gente. Il signor de Rollebon torna a morire; un morto non può mai giustificare un vivente. Roquentin si trascina a casaccio per le strade, corpulento e ingiustificabile. E poi, il primo giorno di primavera, capisce il senso della sua avventura: la Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza.
Bene, ma tutto ciò cosa ha a che vedere con Firefly?
Firefly è una serie televisiva drammatica ideata e scritta da Joss Whedon (lo stesso autore di Buffy, Dollhouse, The Avengers n.d.r.). Essa è costituita solo da 14 episodi (una singola stagione) e da un film postumo, Serenity, in seguito al quale il prodotto venne per la prima volta trasmesso anche in Italia. Ciò per una ragione: Firefly, al tempo della messa in onda, fu un flop clamoroso che indusse forzatamente (a causa della pressione della rete) gli autori a concludere in fretta l’esperimento, per il rimpianto (talvolta la disperazione) di molti fans. Il dato estremamente curioso è che Firefly, in America specialmente, ha avuto un successo tardivo inimmaginabile, una mitizzazione a posteriori, al punto che da molti (intenditori e non) l’epilogo prematuro è stata considerato uno dei più grandi errori, se non un assassinio culturale, delle emittenti televisive del XX secolo: un autentico “caso”. Chiunque, giunti a questo punto, si starà interrogando sulla motivazione. Una risposta certa , però, non è possibile fornirla, perché, come si sa, le ragioni del successo popolare sono sempre estremamente complesse e misteriose.
Per ciò che riguarda la narrazione, si può dire che il genere sia un unicum nel panorama televisivo: un “western drama”, anzi, più precisamente, un western spaziale. La serie è ambientata in un immaginario 2517, dopo l’arrivo degli uomini in un nuovo sistema stellare, e racconta le avventure dell’equipaggio (il cui capitano e protagonista, il tenebroso sergente Malcom Reynolds, è un apostata desideroso dell’indipendenza) della nave spaziale Serenity, una “Firefly-class”. Lo show si propone di esplorare le vite di un gruppo di persone che ha combattuto nello schieramento perdente di una guerra civile ed altri ancora che, relegati ai margini della società, trovano nel microcosmo della nave una ragione per cui vivere ancora, uno scopo, un collante sociale. In questo futuro, le due uniche superpotenze sopravvissute, Gli Stati Uniti e la Cina, si sono fuse in un governo centrale federale (molto oscuro e corrotto), denominato l’Alleanza, caratterizzata da un “melting-pot”, dalla fusione di due culture antitetiche.
Il video riportato è un estratto del “series finale”, quel capolavoro unico e inimitabile di “Objects in space” (che forse, aggiungeremmo, fu possibile realizzare unicamente perché si sapeva già dell’imminente chiusura dei battenti, giacché Whedon diede paradossalmente davvero tutto se stesso, creando un episodio notevole e complessissimo, decisamente poco fruibile per i più). Una puntata che della dissociazione (ma non unicamente angosciosa) tra i personaggi e gli oggetti, tra uomo e mondo, tratta mirabilmente, con una tecnica registica da studiare in ogni scuola cinematografica che si rispetti. L’equipaggio di Serenity incontra Jubal Early, uno spietato (e psicotico) cacciatore di taglie spaziale che non si fermerà davanti a nulla pur di recuperare River, fanciulla geniale che ha dovuto subire esperimenti invasivi al cervello che ne hanno alternato la sensibilità, oltre che la percezione del pericolo e del mondo fenomenico latamente.
La connessione tattile e spirituale di River con gli oggetti fisici riflette direttamente, come lo stesso Whedon ebbe modo di dichiarare, l’esperienza “esistenzialista” dell’autore in giovinezza e i suoi studi proprio del romanzo di Jean Paule Sartre, a cui l’episodio è dichiaratamente ispirato. A tal proposito, affascinante per i nostri fini è la lettura della docente universitaria Lyle Zynda, che, nel suo bellissimo saggio We’re all just floating in space, pone l’accento sul vuoto di significato, la mancanza ontologica di senso che innerva tutto l’episodio e sul parallelismo che si innesca tra le fantasmagorie ottiche di River e Early, i quali, al pari di Roquetin, percepiscono gli oggetti fisici come separati, avulsi dal significato che gli altri unanimemente gli conferiscono. Per esempio, quando River raccoglie in una scena (si veda l’immagine in basso) una pistola, essa si trasfigura nella sua visione in ramo innocuo – un oggetto, come dice, che “doesn’t mean what you think“, in un simbolo autentico di bellezza e di pace. Oppure, mentre si muovono nella nave, sia River che Early sembrano essere acutamente consapevoli, ipersensibili, e trarre piacevole sensuale dal loro ambiente, accarezzando le pareti, coscienti della fisicità dei loro dintorni. In altri termini, l’abilità condivisa dai due “alienati” di vedere gli oggetti come separati dai loro significati condivisi permette loro di creare – e abitare – un mondo altro, finzionale, nel quale nulla è precostituito e ogni cosa assume un valore a seconda dell’arbitrio (e della volontà) del percipiente. Con tale dinamica – e ciò costituisce il nucleo (la finezza) dell’episodio – si ingenera un conflitto implicito tra i due punti di vista ideologici su cui l’episodio è innervato: mentre River “sceglie” una prospettiva gioiosa, Early contempla gli stessi oggetti – come la pistola – con disperazione, come presagio di morte annunciata e di solitudine metafisica.
Early: Siamo nello spazio profondo, tra il Nulla e il Niente di Niente.
[…]
Early: La stanza… Le cose… Hanno uno scopo? O siamo noi a… qual è la parola giusta?
Reynolds: Non so proprio come aiutarla.
Early : Conferirglielo. Ecco qual era.
Reynolds: Quindi sei un cacciatore di taglie?
Early: No, non è affatto cosi’.
Reynolds: E allora cosa sei?
Early: Sono un cacciatore di taglie. Mi chiamo Early.
Early: Mi piace come sono disposte le pareti. Da’ un senso di aria e di spazio. La Firefly è ben progettata. La gente non apprezza la sostanza delle cose. Gli oggetti nello spazio.
Le tre battute riportate del cacciatore psicotico Early (che più assomiglia al Roquetin sartriano) possono comprovare sufficientemente quanto detto. Un’ora di televisione magnifica, “Objects in space“, che ci proietta nel cuore dello spazio, nelle solitudini di uomini futuri, destinati a vagare senza sosta alla ricerca angosciosa di uno scopo, alla ricerca di se stessi e della risposta alla domanda immutabile che alberga (e albergherà sempre) nel cuore umano, dalle origini del cosmo fino alla fine dei tempi: “Chi siamo? Perché siamo qui?” Un procedimento registico magistrale, mediante il quale il genio di Whedon (che soventemente si materializza anche nelle zone apparentemente “minori” della sua produzione) si estrinseca pienamente in un’ora di pathos, adrenalina e capovolgimenti narrativi. Un episodio che non fornisce risposte, ma che dipana dubbi e interrogativi amletici, e che forse, a mo’ di un explicit beffardo e rancoroso, costituisce l’atto ultimo e la risposta piccata di un regista che non dovette certo gradire l’interruzione di un prodotto a cui teneva tantissimo.
Eppure, “Objects in space” non è certo l’unica gemma qualitativa contenuta in Firefly. Essa, anzi, pur nella sua brevità, ne contiene innumerevoli, le quali tutte meriterebbero un simile approfondimento, purtroppo impossibile da effettuare in questa sede. Al lettore, dunque, il piacevole “compito” della (ri)scoperta.
Guido Scaravilli