Jean-Pierre è un medico che lavora da oltre trent’anni in un paese di campagna in cui vive, prendendosi cura dei propri pazienti più di quanto un comune dottore farebbe. Per Jean-Pierre, il suo paese non è solo un paese, ma assomiglia piuttosto ad una piccola, calorosa comunità in cui tutti si conoscono e lo conoscono, e contano su di lui come si fa affidamento su un padre. Almeno fino a quando non viene colto da un tumore al cervello, inoperabile e trattabile soltanto con la chemioterapia. È a quel punto che subentra, nella sua vita e in quella della cittadina, la dottoressa Nathalie Delezia, incaricata di affiancarlo nelle sue visite quotidiane e, benché ne sia lei stessa ignara, responsabile anche di un altro compito ben più delicato: aiutarlo ad accettare la malattia.
È Cluzet a indossare il camice (si fa per dire, nel film non lo porta mai) di Jean-Pierre Werner, il medico che vive per la sua professione, al punto tale da avere a cuore anche il benessere spirituale delle persone che si rivolgono a lui, e che si nutre dell’esperienza diretta del regista. Prima di passare dietro la macchina da presa, infatti, Lilti ha lavorato come medico in un ambiente rurale. «Quegli anni durante i quali, da giovane, sono stato chiamato a fare le veci di medici di grande esperienza che esercitavano in campagna – ha detto il regista – mi hanno molto aiutato a crescere. Una volta diventato regista, mi è naturalmente venuta voglia di trasformare tutto il materiale che avevo immagazzinato in precedenza in un film». Materiale che ha finito per alimentare dapprima Hippocrate, il suo lavoro precedente, il cui titolo si richiama, com’è facile intuire, alla professione medica, e poi quest’ultimo. Tra le due pellicole, però, corrono alcune, significative differenze di linguaggio e di contenuto.
Per dirla ancora con le parole del suo autore – oltre ad occuparsi della regia, Lilti ha firmato la sceneggiatura di tutti e tre i suoi film – «Hippocrate è in primo luogo un film d’iniziazione», che segue il ventitreenne Benjamin lungo i suoi primi passi all’interno dell’ospedale in cui lavora. Ne Il medico di campagna, al contrario, Jean-Pierre è un medico navigato, che effettua visite a domicilio o nel suo piccolo ambulatorio. Si percepisce attraverso lo schermo la sensazione di un contatto diretto con gli abitanti del paese che rappresentano, per lui, quasi una sorta di famiglia allargata. Al contempo, la dedizione alla professione e le premure verso il prossimo sono inversamente proporzionali alla riluttanza che Jean-Pierre dimostra nell’aprirsi alla nuova arrivata. Si renderà conto, però, che la comunità che fino a quel momento ha potuto contare sulla presenza di un solo ed unico medico, ha bisogno di un’altra figura di riferimento, ed è già pronta ad accoglierla. Nathalie si ritrova assorbita nel tessuto sociale del paese prima ancora che il suo collega
L’attrice Marianne Denincourt si è preparata per il ruolo direttamente sul campo, incontrando dei veri medici e seguendoli durante le loro attività quotidiane, reperendo articoli e documentari che ha condiviso con Lilti, Cluzet e gli altri membri del cast. La macchina da presa osserva da vicino i due protagonisti mentre visitano anziani, donne incinte, malati terminali e giovani affetti da disabilità mentale, con un approccio quasi documentaristico e mai patetico, che conferisce alla narrazione un sapore di autentica sincerità.
Negli ultimi anni la Francia si è decisamente distinta come la patria di un tipo di film a metà strada tra la commedia sofisticata e il drammatico: un macrogenere che non indulge nella risata chiassosa e che non esibisce la sofferenza, che apre una finestra su storie vere, raccontate con leggerezza ma senza fatuità, e che comprende pellicole pur diverse tra loro come il già citato Quasi amici, La famiglia Bélier, Piccole bugie tra amici, Emotivi anonimi e La cuoca del presidente. Ultimo, ma non ultimo, Il medico di campagna, nelle sale dal 22 dicembre. Giusto in tempo per farsi un regalo di Natale.
Andrea Vitale
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