Shoegazer: l’uomo che fissa le scarpe
Quando sul finire degli anni ’80 una modesta schiera di ventenni britannici cominciò a proporre musica nei locali di Londra e delle Home Counties rimanendo immobili a fissare il pavimento durante le esibizioni, negandosi anche la minima forma di comunicazione con il pubblico, la stampa locale non esitò a storcere il naso. Peraltro l’effetto delle performance era straniante: melodie rarefatte immerse in oceani amorfi di chitarre distorte e riverberate all’inverosimile, sparate a volumi ai limiti del trauma acustico, investivano come un’onda lo spettatore attonito. Sulle pagine del Melody Maker il giornalista Steve Sutherland definì – non senza un minimo intento denigratorio – quella che aveva preso forma nell’area della Thames Valley «The Scene That Celebrates Itself» (La Scena Che Celebra Sé Stessa); l’espressione si riferiva ad un collettivo di band dall’estetica distaccata e trasognata viste spesso partecipare le une ai concerti delle altre, oltre ad essere impegnate nella realizzazione di collaborazioni reciproche.
Nel 1990 anche il leader dei Moose, Russel Yates, si apprestava a cantare le sue canzoni con la testa china, come se guardasse il pavimento (anzi, le sue scarpe): il fenomeno ormai si era consolidando oltremanica come una realtà tutt’altro che marginale. Era nato un genere nuovo. Il magazine musicale Sounds, seguito a ruota da altre riviste di settore, diede ai suoi esponenti l’appellativo sarcastico di “shoegazer” (“fissascarpe”, per l’appunto). L’etichetta data al genere (“shoegaze” o “shoegazing”), nonostante risultasse assai poco gradita agli stessi protagonisti, ebbe immediato successo e si diffuse rapidamente nella parlata quotidiana. Ma solo in seguito si svincolò dalla connotazione puramente scenografica, per lasciare il posto ad una definizione identificativa di una ben precisa espressione sonora che fino a quel momento non aveva mai assunto caratteristiche tali. Dopotutto ciò che stava contribuendo a rendere questo genere un unicum nel panorama musicale era la totale messa in disparte dell’ego da parte degli artisti, per fare largo alla vera protagonista della scena, la musica. L’attenzione era rivolta soprattutto al sound delle chitarre, le cui manipolazioni tramite l’uso massiccio di pedali induceva i musicisti coinvolti ad un controllo costante degli effetti che ne scaturivano – da cui la necessità di volgere lo sguardo verso il basso. La celebre postura da shoegazer, che per i detrattori nascondeva una non eccelsa capacità tecnica di eseguire gli accordi, giustificava, così, una specifica esigenza artistica, ovvero quella di realizzare il caratteristico “muro del suono”, una versione riveduta e aggiornata del Wall of Sound di Phil Spector.
L’etichetta indipendente Creation Records divenne il cuore pulsante della nuova scena. Era stato il suo fondatore, Alan McGee, ad aver notato nel 1984 quattro ragazzini delle Highlands che si erano guadagnati la notorietà grazie alle loro esibizioni incendiarie, consistenti in bombardamenti a tappeto di larsen e stridori assordanti, avvolti in nebulose melodie eteree. Si trattava dei Jesus and Mary Chain, creatura dei riottosi fratelli Reid, coloro i quali sarebbero diventati involontariamente i pionieri del nuovo movimento shoegaze – pur non facendone mai parte. Parafrasando il titolo del documentario di Eric Green, “Beautiful Noise”, si può dire che i Jesus and Mary Chain siano stati i primi a dimostrare che il rumore è melodia, il rumore è pop, e può essere bellissimo. Il loro debut-album dell’85, “Psychocandy”, venne immediatamente eretto ad album dell’anno dalla stampa specializzata e il singolo di apertura, “Just Like Honey”, diventò il manifesto di tutto un nuovo genere musicale. Altro tassello fondamentale per la nascita dello shoegaze è stato senza dubbio il trio dream-pop Cocteau Twins, che, prima ancora che il movimento prendesse piede, aveva già elaborato stilemi e sonorità tali da renderli dei veri precursori e che, con l’album del 1983 “Head Over Heels”, avevano preannunciato quelli che sarebbero stati gli elementi più emozionali e romantici della corrente britannica, riassunti dall’inconfondibile combinazione tra i gorgheggi ultraterreni di Elizabeth Fraser e le cascate ambient delle chitarre di Robin Guthrie. Più affine al mondo lisergico del rock psichedelico, invece, è la parentesi degli Spacemen 3, embrionale punto di partenza per tutta una generazione di shoegazer, esperienza conclusasi nel 1991 e risorta, poi, dalle sue ceneri sotto le vesti dei Spiritualized.
Ma l’esplosione avvenne nel 1990, considerato l’anno zero dello shoegaze. Indiscussi capofila furono i Ride, quartetto di Oxford, il cui esordio fu segnato dal capolavoro “Nowhere”, un’onda anomala di rinnovata psichedelica – evocata dalla suggestiva foto di copertina – sovrastata da una cortina di droni chitarristici e voci impalpabili. Parallelamente emergeva, trovando terreno fertile alla Creation, un gruppo di Reading formatosi nell’89, gli Slowdive, band che ha lasciato una traccia indelebile nel panorama alternativo, incarnando tutte le caratteristiche del genere e riuscendo a toccare con “Souvlaki” uno dei vertici assoluti dell’esperienza shoegaze. Il punto d’arrivo, però, è senza dubbio il secondo album degli irlandesi My Bloody Valentine, “Loveless”, dato alle stampe nel novembre del ’91, dopo due anni e mezzo di lavorazione e l’impiego di ben sedici ingegneri del suono. Una produzione caratterizzata da un’ossessiva ricerca di soluzioni sonore innovative, incisioni interminabili, sfibranti sessioni di registrazione ed enormi difficoltà economiche dell’etichetta. Considerato dalla critica una pietra miliare del rock, in cui melodia e rumore, dolcezza e violenza raggiungono un equilibrio assoluto, “Loveless” ha permesso ad una delle più influenti band degli anni ’90 di entrare di diritto nella storia dalla porta principale. Molti sono i musicisti che lo hanno citato tra le loro influenze e ancora oggi band come i Sigur Rós cercano di imitarne il muro di chitarre.
Tuttavia i MBV, così come avevano dato vita al nuovo genere, simbolicamente ne determinarono anche la “fine”. A causa dello scarso successo commerciale, la Creation liquidò la band, che si eclissò dalla scena musicale per tornare in studio solo ventidue anni dopo. In rapida successione parecchi gruppi si sciolsero, soverchiati dal successo della scena madchester, mentre altri imboccarono la strada del brit-pop. Nella prima metà degli anni ‘90 lo shoegaze si apprestava, così, a chiudere la sua breve parabola, dopo aver stabilmente occupato le classifiche indie per almeno tre-quattro anni, arrendendosi all’avanzata inesorabile di nuovi fenomeni musicali. Dalla lontana Seattle, in particolare, spirava un vento furioso: un giovane cantautore dall’aspetto trasandato urlava la disperazione e la rabbia di un’intera generazione, concludendo le esibizioni con la distruzione degli strumenti. L’uragano grunge era pronto a sconquassare l’industria musicale. Ma questa è tutta un’altra storia.
Valerio Ferrara