Philip Milton Roth è considerato tra i più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese. Diventa noto già con il racconto lungo Goodbye, Columbus, poi unito ad altri 5 più brevi in volume (premiato con il National Book Award), e poi famoso con Lamento di Portnoy, da alcuni considerato scandaloso al punto che l’autore è stato esposto a periodici attacchi per il linguaggio considerato troppo aperto e scurrile. Roth è stato premiato negli anni con tanti riconoscimenti, ma mai ha ottenuto il Premio Nobel. Dopo il Lamento di Portnoy, Roth sperimentò la satira politica con La nostra gang (1971); un certo surrealismo di matrice kafkiana con Il seno (1972) (dove un professore universitario si risveglia trasformato in un’enorme mammella), per poi giungere a una serie di titoli che hanno fatto di Philip Roth il più fine indagatore della società e dell’animo umano; particolarmente felice è la saga che ha al centro il personaggio (e voce narrante) di Nathan Zuckerman (The Ghost Writer, Zuckerman Unbound e The Anatomy Lesson, solo come personaggio appare pure in L’orgia di Praga, La controvita, Pastorale americana, Ho sposato un comunista, La macchia umana e Il fantasma esce di scena).
Roth denuncia nei suoi romanzi le ipocrisie di un’America divisa tra moralismi pubblici e morbosi comportamenti privati, rivelandone impietosamente le profonde incoerenze. Si muove dal piano della storia pubblica a quello della storia privata, e quanto più il primo è visibilmente deformato ed elogiato tanto più il secondo è riconoscibile e fragile. Particolare attenzione in questo articolo verrà posta su The Human Stain “La macchia umana” l’ultimo capolavoro della “trilogia americana” di Philip Roth, composta dai due precedenti romanzi American Pastoral, I Married a Communist.
Il primo romanzo della trilogia, American Pastoral, è uno spaccato di un momento storico che toccò tutta la collettività americana, coinvolgendo ogni strato sociale e ogni gruppo etnico: il periodo di svolgimento sono gli anni che impegnarono lo Stato nella guerra in Vietnam (1960 – 1975). Attraverso la parabola del protagonista si raccontano la storia, le promesse, i sogni e le contraddizioni dell’ultimo secolo di questo Paese ingenuo ma anche estremamente rabbioso. Infatti un uomo come Seymour Levov, biondo e atletico ragazzone ebreo detto lo Svedese, non si era mai posto domande sul perché delle cose ma, a un certo punto, anche lui si vedrà costretto a fare i conti con la realtà. Questo succederà solo quando la sua amatissima figlia, in lotta contro la guerra americana in Vietnam ma anche contro tutto e tutti, si perderà definitivamente. Sarà allora che Levov lo Svedese si risveglierà da quel sogno americano a cui ciecamente aveva creduto. Il secondo romanzo è I Married a Communist, dove all’inizio degli anni ’50, in pieno maccartismo, Ira, simpatizzante comunista e uomo dal temperamento violento e rissoso, conosce Eve Frame, ex diva del cinema muto, donna più matura di lui, ma ancora bella e seducente. I due sono la coppia peggio assortita che si possa immaginare, eppure, fra loro, nasce improvvisa la passione. Le difficoltà private della loro vita disordinata diventano un costante bersaglio dell’opinione pubblica e vengono strumentalizzate a fini politici.
Dopo le sue dimissioni istantanee e la successiva morte della moglie, si lega ad una donna, Faunia Farley, un’analfabeta, che ha la metà dei suoi 71 anni e che si occupa delle pulizie dell’Athena College. Proprio per questo motivo diventa oggetto di nuove, anonime, accuse come quella di abuso di una donna in difficoltà. In realtà, Faunia è stata vittima degli abusi del padre e dell’ex marito e ha dovuto superare il dolore per la perdita, in un incendio, dei due figli. Grazie a questo rapporto, il protagonista ritrova una felicità tardiva, anche dal punto di vista sessuale, e decide di confidare all’amante il “pesante” segreto, tenuto nascosto anche alla moglie, ai quattro figli, ai colleghi, agli amici e allo scrittore Nathan Zuckerman (il narratore che accompagna Roth in tutti i romanzi): nelle sue vene scorre sangue nero. Quale ironia, perciò, essere accusato di razzismo!
Lo sforzo compiuto da Coleman per preservare la propria privacy dall’occhio indiscreto e malizioso dell’opinione pubblica diventa occasione per rileggere pacatamente il dramma sociale che il puritanesimo smisurato ha innescato nell’America del 1998. Un’America ancora sotto shock a causa dello scandalo che coinvolse Monica Lewinsky e il presidente Clinton. Era
l’estate in cui il segreto di Bill Clinton venne a galla in ogni suo minimo e mortificante dettaglio… l’estate di un’orgia colossale di bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo subentrò, come dire, il pompinismo, e un maschio e giovanile presidente di mezza età e un’impiegata ventunenne impulsiva e innamorata, comportandosi nell’Ufficio Ovale come due adolescenti in un parcheggio, ravvivarono la più antica passione collettiva americana, storicamente forse il suo piacere più sleale e sovversivo: l’estasi dell’ipocrisia.
L’euforico e generalizzato atteggiamento di condanna che, sul finire degli anni novanta, la società americana riserva allo scandalo Clinton-Lewinsky è il medesimo con cui la comunità di Athena censura la storia d’amore di Coleman Silk. Non sembra ammissibile che, alla sua età e con la sua ragguardevole cultura, l’ex docente di lettere possa avere una relazione con una donna analfabeta e tanto più giovane di lui. La storia viene presentata al lettore con la consueta felicità espressiva di Roth. Andando avanti nella lettura, si scopre tutta la storia di Coleman; la morte della moglie un anno dopo l’episodio degli spettri; i dettagli intimi della relazione tra Coleman e Faunia; il rapporto con i quattro figli; fa la sua comparsa la figura dirompente di Les Farley, ancora ossessionato dal ricordo dell’ex moglie. Ma dopo quasi cento pagine, il grande colpo di scena. Il lettore scopre che Coleman Silk non è né ebreo né bianco, e non lo scopre in modo lineare, dopo una rivelazione esplicita del narratore. Per capirlo, bisogna mettere in discussione tutto ciò che è stato appreso fino a quel momento durante la fruizione del testo. Coleman inizia a ricordare quel giorno lontano della sua adolescenza in cui il dottor Fensterman, un medico ebreo suo vicino di casa, si presentò dalla famiglia Silk per chiedere un imbarazzante favore ai suoi genitori: egli voleva, in cambio del pagamento di tremila dollari, che il giovane Coleman prendesse una B anziché una A in due degli esami finali a sua scelta, consentendo così a suo figlio Bert di risultare il miglior studente del corso e tenere lui il discorso di commiato alla cerimonia di consegna dei diplomi. Solo così infatti, a causa della forte discriminazione razziale esistente, uno studente ebreo come Bert Fensterman poteva avere la speranza di essere accettato alla facoltà di medicina di Harvard o Yale. Il dottor Fensterman è consapevole che le discriminazioni verso i neri sono molto più forti di quelle nei confronti degli ebrei, ma ritiene che, uscendo come il miglior studente nero della scuola, Coleman abbia comunque la possibilità di iscriversi in un buon college per neri come la Howard University. In questo punto si sviluppa l’abilità narrativa di Roth, insinua il dubbio nel lettore, Coleman non è nero. È ebreo. È bianco. Ma il narratore continua a raccontare la storia come se ci avesse detto fin dal principio che Coleman Silk è nato in una famiglia nera. Solo andando avanti nella lettura, veniamo a sapere che Coleman, dopo aver subito alcuni episodi di discriminazione, spinto da una naturale insofferenza verso tutto ciò che gli impedisce di realizzare fino in fondo il proprio io, approfitta dell’estrema chiarezza del proprio incarnato per inventarsi un’identità nuova: abbandona Howard (il college di Washington, D.C. riservato ai neri) e si iscrive come bianco alla NYU; si sposa con una donna ebrea e rinuncia per sempre alle proprie origini, non rivelando mai a nessuno la verità su ciò che realmente è.
Se si può ricavare una lezione da un romanzo che nega la possibilità di imparare lezioni nella propria vita, è che nessuno sa nulla.
Tutti sanno… Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa, professoressa Roux. “Tutti sanno” è l’invocazione del cliché e l’inizio della banalizzazione dell’esperienza, e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula il cliché a riuscire così insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato, nessuno sa nulla. Le cose che sai… non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente.
La realtà non è categorizzabile, ritenere di sapere qualcosa è pretenzioso, tra la verità e l’apparenza esiste il mondo delle complessità. Nulla è come sembra. I temi centrali nel romanzo, il pregiudizio e il moralismo, vengono mostrati come forme semplificate di conoscenza. L’uomo ha la pretesa di ridurre a categorie statiche e inefficaci una realtà che, per sua natura, è complessa e in un’incessante trasformazione. Tentare di comprendere qualcosa tramite strumenti che non vengano messi continuamente in discussione dall’esperienza delle cose, non consente di conoscere nient’altro che se stessi, o ciò che si conosce già. Coleman, con la sua decisione di sottrarsi alla logica del pregiudizio e di rinunciare alla propria identità, enfatizza l’irriducibilità dell’individuo a categorie astratte che non riescono a coglierne la sottile specificità. Intitolando il romanzo La macchia umana, è proprio Faunia a pronunciare la frase “the human stain“, Roth sottolinea come essere uomini significhi essere macchiati, significhi portare il segno dell’impurità, della crudeltà, dell’abuso, dell’errore. Fotografa, attraverso il racconto di una vicenda esemplare, i mille volti di un paese e della sua gente: denuncia le ipocrisie di un’America divisa tra moralismo e sensualità morbosa; descrive il sogno dell’uomo, americano che come vuole la tradizione si sbarazza delle sue origini e inventa da zero la propria vita; evidenzia la rivincita del lato più scabroso e carnale dell’esistenza, che trova espressione nel paradigma della “macchia” umana.
Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui.
Il romanzo si può considerare come il manifesto dello scrittore contro il puritanesimo americano. Questa volta Philip Roth focalizza la sua attenzione sulla discriminazione razziale, quella contro i neri d’America in particolar modo. L’intero romanzo nasce dall’utilizzo di un termine troppo ricercato o troppo gergale. Quando Coleman usa il termine Spooks cita Shakespeare, e lì significa spettri; ma per i suoi studenti in gergo spooks significa negri. Molto del romanzo, almeno tutta la prima parte, coincide con l’autodifesa di Silk: ed è un’autodifesa che cerca di opporre vanamente Shakespeare al gergo americano. Un’autodifesa che è dimostrazione del crollo della cultura classica (shakesperiana, ma soprattutto latina), è un’autodifesa che fallisce, che è destinata a fallire e che, fallendo, fa emergere la verità e consegna l’atto prometeico di Silk alla memorabilità. Ma non è solo questo, è l’infamia la vicenda duplice che prende corpo ne La macchia umana. Roth struttura una seconda vicenda tragica, speculare rispetto a quella di Coleman Silk: quella di Faunia. La tragedia inscena molte fini, per permettere allo sguardo umano di durare oltre la conclusione. Roth utilizza questo meccanismo nelle ultime pagine, quando anziché concludere La macchia umana aggiunge un pezzo estraneo a tutto il racconto. Il misterioso incontro tra Zuckerman e l’ex-marito di Faunia. Questo incontro avviene in una distesa ghiacciata, immensa: un lago coperto da una spessa lastra glaciale. Si incontrano i testimoni delle tragedie: Zuckerman è il testimone della tragedia di Silk, il marito di Faunia fu il testimone della tragedia della donna, fu il testimone della tragedia del Vietnam. È una scena totalmente bianca e gelida. Tre mesi dopo la morte di Coleman e Faunia, Nathan Zuckerman, guidando lungo un’isolata strada di montagna, nota il pick-up di Les Farley fermo lungo il bordo della carreggiata. L’uomo si è fermato a pescare in un lago ghiacciato, e Nathan, osservandolo in lontananza, rimane colpito dall’impronta scura che la sua figura impone alla bianchezza immacolata del paesaggio. Senza fermarsi troppo a riflettere sulle possibili reazioni di quell’individuo disturbato, il cui equilibrio è stato irrimediabilmente compromesso da una serie di esperienze a dir poco devastanti, Zuckerman arresta la sua vettura e si dirige avventatamente verso di lui, spinto da un’invincibile curiosità:
Dopo essermi allontanato di circa cinquecento metri dalla strada, ero entrato, no, mi ero introdotto abusivamente – era quasi un senso di illegalità, quello che provavo –, avevo sconfinato in un ambiente incorrotto, oserei dire, inviolato, sereno e intatto come quello che circonda ogni specchio d’acqua interno del New England. Ti dava un’idea, come fanno questi posti (che proprio per questo sono tanto apprezzati), di come doveva essere il mondo prima dell’arrivo dell’uomo. La forza della natura è talvolta un potente lenitivo, e quello era un posto che ti calmava, che t’invitava ad accantonare le tue banali riflessioni senza metterti, nello stesso tempo, troppo in soggezione ricordandoti quel niente che è l’arco di una vita e la vastità dell’estinzione.
Nella verginità di quel paesaggio incontaminato, nell’abbagliante candore sul quale risalta l’uomo non uomo nella sua forma piccolissima e scura, eccezionale, forse rettile, nell’assoluta assenza di riferimenti geometrici che permettano di definirne i contorni, nel gesto coraggioso di Nathan Zuckerman, che anela a quel candore e allo stesso tempo non teme quell’oscurità, si cela l’immagine più poetica che La macchia umana ci ha lasciato: uno dei libri di Philip Roth che maggiormente ne rivelano la tensione appassionata verso il divenire, la luminosa indipendenza di giudizio, la fedeltà sincera alla contraddizione.
Anna Chiara Stellato
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Ho letto molto volentieri la tua bellissima recensione. Concordo con le tue valutazioni.