Oblio, D. Foster Wallace. Avanguardia e consapevolezza
Oblio (orig. Oblivion: Stories) è l’ultima opera narrativa pubblicata in vita da David Foster Wallace. Rappresenta il punto culminante – non programmatico, ma effettivo per il suicidio dell’autore nel 2008 – di un’evoluzione narrativa che abbraccia i più disparati aspetti della scrittura e della società rappresentata.
Oblio accoglie in forme disparate una serie di temi che Wallace ha affrontato sin dai suoi primi lavori. La comunicazione di massa, l’incomprensione, gli uomini schifosi. Anche dal punto di vista stilistico i racconti hanno connotazioni fortemente differenziate. Mister Squishy, il testo che apre la raccolta, è un racconto dalla densità eccessiva, dal linguaggio complesso, ingarbugliato, una sintassi difficile. È un racconto che si presenta come un ostacolo da qualunque lato lo si guardi.
Un Direttore Creativo Senior della R.S.B. col codino grigio era stato in qualche caffè esclusivo e aveva ordinato un dessert di tendenza il giorno stesso in cui prendeva appunti per una seduta di brainstorming dei Direttori Creativi per decidere cosa sottoporre a quelli del settore produttivo sussidiario della North American Soft Confections, e gli era venuta un’idea, e a una o due decine di pistoni e ingranaggi già in funzione e al posto giusto nelle varie teste impervie della R.S.B. e della Mister Squishy nordamericana serviva solo quell’unica scintilla di passione ispirata dal C12H22O11 da parte di un DCS il cui grandioso repertorio si basava su una concezione che equiparava la carta igienica alle nuvole, agli orsacchiotti con la vocetta scema e a ogni sorta di cose lontane anni luce dalla merda nella mente di un Ur-consumatore astratto per mettere in movimento un macchinario che ormai nessuno – e men che meno il viscoso Mr T. E. Schmidt, dimentico di sé quasi al punto da andare avanti e indietro dinanzi agli uomini seduti al tavolo da conferenze accarezzando pericolosamente l’idea di smetterla con tutta quella farsa contorta e di dire semplicemente la verità – era in grado di controllare. (Mister Squishy, in Oblio, Torino, Einaudi, 2004, p.54)
La complessità stilistica e strutturale, l’abbandono di qualunque linearità, rappresentano per Wallace il miglior strumento per affrontare la rappresentazione della realtà contemporanea. Chiariamoci: Wallace non è il paladino del post-modernismo – tutt’altro – o dello sperimentalismo a tutti i costi. Da lettore – racconta a Lipsky – è stanco di leggere letteratura sperimentale, perché sembra chiusa in se stessa, scritta e pubblicata per gli scrittori e gli addetti ai lavori, come – continua – la poesia degli ultimi decenni sembra scritta solo per i poeti. Wallace non può nemmeno tornare strettamente sul realismo, poiché il realismo in senso classico ha una linearità che è stata fagocitata dall’intrattenimento televisivo, è passato a un altro mezzo e sa di stantio fra le pagine di un libro contemporaneo. Insomma, Oblio si sviluppa in questo contrasto, fra un’impossibilità di restituire la vita come il vecchio realismo – poiché la vita non è più così lineare, o almeno non è percepita come tale – e la necessità di non diventare quella sperimentazione solipsistica che perde ogni contatto con il lettore.
L.: Io sono un fan del realismo. Secondo te è così?
F.W.: Il realismo impone all’esperienza un ordine, un senso e una facilità di interpretazione che nella vita reale non ci sono mai. Parlo di quel tipo di letteratura… sai, quello che è difficile o sembra strambo nella struttura, o bizzarro nella forma… secondo me parte di quella roba può essere molto fica.
L.: Ma Tolstoj riesce meglio di chiunque altro a restituire la sensazione reale della vita, eppure i suoi libri non potrebbero essere più convenzionali di così.
F.W.: Sì, ma oggi la vita è del tutto diversa da come era allora. La tua vita assomiglia anche solo approssimativamente a una narrazione lineare? Parlo della sensazione che ti dà, delle sensazioni del nostro sistema nervoso. (Come diventare se stessi, 2010)
Se è in questo squarcio che si inserisce l’opera ultima di Wallace, appare più evidente come la struttura dei racconti possa essere così diversa. Fra Mister Squishy e Il canale del dolore, il racconto che chiude la raccolta, c’è una distanza abissale in termini di struttura compositiva. Il canale si avvicina pericolosamente a quel primo Foster Wallace de La ragazza dai capelli strani, e in particolare a quei racconti di cui l’autore si è detto meno entusiasta (ma che forse hanno consacrato la sua fortuna come scrittore di narrazioni brevi. Si pensi solo a Piccoli animali senza espressione). Meno entusiasta perché – come riporta D.T. Max in Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi – rappresentavano uno strascico del minimalismo ancora imperante o meri esercizi stilistici.
Dal nostro punto di vista, a posteriori sulla sua intera opera, è di particolare interesse notare come quello – il Foster Wallace dei Piccoli animali o di Da una parte e dall’altra – sia invece il meno sperimentale, quello meno avvezzo ai giochi stilistici.
È però necessario tener conto che fra La ragazza dai capelli strani e Oblio c’è il mastodontico spartiacque rappresentato da Infinite Jest. Non è possibile ignorarlo se si guarda Mister Squishy, profondamente massimalista, intendendo con questo termine il gioco di scatole cinesi lessicali, strutturali e contenutistiche che permea la scrittura di un certo Wallace. Si nota il ricorso al paratesto – in particolare le note – che sono quasi del tutto assenti nel resto della raccolta. Una singola nota al termine di Caro vecchio neon, che serve a spezzare in due il piano di narrazione, come uno svincolo ferroviario, per portare a termine la prima corsa mentre sulle pagine si accavallano le parole di una conclusione diversa e laterale.
Se diamo uno sguardo all’opera che si frappone fra Infinite Jest e Oblio, Brevi interviste con uomini schifosi, si noterà un utilizzo del paratesto limitato a pochi racconti (da citare almeno La persona depressa e Ottetto) ma con un impatto tale sul singolo testo da ricordare da vicino le note di Infinite Jest. Quello che sembra venir fuori, insomma, è un allontanamento da quel modello statuario che è IJ, forse dovuto alla ricerca di un equilibrio fra realismo e sperimentalismo che permea Wallace almeno dalla pubblicazione del romanzo. Naturalmente Oblio non si presenta come una scala progressiva che porta dal massimalismo a un tipo di narrazione più semplice (o, forse, converrebbe dire “meno complessa”). Ma rappresenta senz’altro un mondo in divenire, una sorta di ottaedro che non ha una linea retta a congiungere le sue parti, e si può solo indicare un punto d’origine e uno d’arrivo. Ciò che c’è in mezzo è una linea spezzata – una qualunque – che li collega.
Passando oltre le questioni strutturali, Oblio è soprattutto una raccolta che parla di consapevolezza. Di sé o del mondo circostante, presente o assente o in divenire. È questo il filo rosso che unisce i racconti. Il diverso approccio dei due genitori in Incarnazioni di bambini bruciati, il bimbo oracolo in Un altro pioniere, la distrazione quasi fatale del protagonista di L’anima non è una fucina. Ma soprattutto l’intero Caro vecchio neon. Una lunga confessione, o forse una spiegazione, un tentativo di rendere noto e al contempo non essere fraintesi di un atto estremo, la soluzione finale al problema di una vita poliedrica. Rappresenta, in un certo senso, la vetta, il punto massimo di consapevolezza, contrapposto alla totale mancanza nel racconto eponimo. I due coniugi non hanno consapevolezza l’uno dell’altro, e questo porta a mancanza di fiducia reciproca, a mancanza di fiducia in loro stessi, alle incrinature necessarie del loro rapporto. In questa raccolta la mancanza di consapevolezza assume spesso la faccia dell’incomunicabilità o dell’errata comunicazione. Nell’esempio appena portato è evidente. In La filosofia e lo specchio della natura Foster Wallace apre con questi presupposti:
[…]Mia madre vinse una piccola causa per un prodotto difettoso e si affrettò a usare il denaro del risarcimento per un intervento di chirurgia plastica alle zampe di gallina che aveva intorno agli occhi. Solo che il chirurgo plastico combinò un pasticcio e la muscolatura del viso assunse un’espressione che la faceva sembrare sempre follemente spaventata. (La filosofia e lo specchio della natura, p.217)
E suo figlio, che l’accompagna dagli avvocati, è un ex-galeotto dalla figura poco rassicurante. La compresenza di questi due personaggi provoca com’è intuibile una serie di possibili ed effettivi disguidi e fraintendimenti. Ma al contempo lui è lì anche per proteggerla, qualora dei punk si sentissero offesi da quello sguardo terrorizzato. Si sott’intende però un’altra verità:
[…]La mia sagoma imponente e gli occhialoni lasciano intendere che sotto quel rictus beante lei crede che io sia in grado di proteggerla il che è un bene. (Ivi, p.225)
L’incomunicabilità attraversa anche loro due che sono al corrente della verità, una mancata comunicazione – questa volta – del tutto necessaria e voluta, contrapposta a quella fastidiosa e involontaria dello sguardo terrorizzato.
Consapevolezza non è solo nei personaggi, ma anche nell’autore. I racconti di Oblio possono essere spaccati in due come pesche per tirar fuori chiaro e netto ciò che l’autore aveva in mente (o, forse meglio, ciò che l’autore voleva che trasparisse). L’attacco alla massificazione, al pensiero unico, ai rischi della società di massa di Mister Squishy, dove la struttura abbraccia il contenuto, in un amalgama che Wallace porta avanti sin dai suoi primi racconti. Senza voler entrare nel merito, poi, di chi – in Caro vecchio neon – vuole vedere un’apologia e un preannunciarsi al mondo come suicida, a metà fra la riflessione sul tema e il testamento narrativo, per quell’atto che si sarebbe consumato quattro anni più tardi.
Ma è forse Il canale del dolore che più di tutti manifesta un attacco. Un attacco all’arte o a ciò che viene fatta passare per arte – le statuine di escrementi del racconto sono abbastanza eloquenti pur senza voler citare la merda d’artista di Piero Manzoni –, un attacco ai mezzi di comunicazione che non solo permettono, ma promuovono questo sensazionalismo, la caccia non a un valore artistico, ma allo scoop, verso una compiuta mercificazione dell’arte e dell’artista, e infine quegli stessi mezzi di comunicazione che invadono con prepotenza la sfera privata e la rovesciano in mondovisione, senza pietà alcuna. Skip Atwater (“Skip at water”, cioè qualcosa come: “salta in acqua” in un racconto che parla anche di defecazione) deve scrivere questo articolo che nessuno vuole, e la sua programmazione è fissata al 10 settembre. Siamo nel 2001. L’intero libro si chiude con una vicenda lunghissima – credo si tratti della più lunga dell’intera raccolta in termini di pagine – su un articolo che parla di feci artistiche per una rivista che ha sede in una delle torri gemelle al preannunciarsi degli attentati. Non c’è parola su terroristi, su cosa accade dopo quella data. Ma è chiaro che un evento epocale sta per accadere, qualcosa che scuoterà il mondo intero, e la vicenda si occupa di un articolo di terz’ordine su statuine di feci. Se da una parte è semplice vedervi un ridimensionamento di ciò che ci sembra importante singolarmente davanti a ciò che ci coglie insieme, di fronte a ciò che davvero importa – e non nego che questa interpretazione possa andare nella direzione giusta –, d’altra parte c’è anche un confronto di valori, un chiudere gli occhi, un non vedere – e non essere in grado di vedere quasi per conformazione – quello che ci accade intorno, oltre la nostra sfera diretta di interessi. L’incapacità della società contemporanea, insomma, di essere davvero consapevole di se stessa. Come il ragazzino di L’anima non è una fucina, che non si accorge di ciò che gli accade intorno e non è quasi cosciente di dove si trova, così la società fantastica su se stessa, perde di vista ciò che davvero è.
Si diceva, qualche riga più su, che Oblio è una raccolta sulla consapevolezza. In fin dei conti, credo si tratti di una raccolta sulla mancanza di consapevolezza, o su uno spostamento d’attenzione su altro che non sia il proprio sé. E in questo nuotare di coscienze distratte incapaci di guardarsi allo specchio, spunta l’io razionale di un uomo che ha deciso di togliersi la vita. L’unica consapevolezza forte dell’intera raccolta. Caro vecchio neon si presenta quasi come una soluzione, l’unica fine possibile al caos di un vivere distratto. Se così fosse, Wallace avrebbe poi accettato questa soluzione. Ma forse quella consapevolezza significa solo che il nostro mondo l’ha persa, e serve una diversa prospettiva per riguadagnarla, serve una scelta coraggiosa, o forse un atto di viltà. Serve avere la volontà di abbandonare la vita come la conosciamo, per abbracciarne una diversa, e serve farlo in maniera plateale – e forse, anche dolorosa – vincendo un conflitto con noi stessi.
[cercava di spingere] la parte più reale, più tollerante e sentimentale di lui a imporre all’altra parte di tacere come se la guardasse occhi negli occhi dicendo, quasi a voce alta: «Non una parola di più». (Caro vecchio neon, p.215)
Maurizio Vicedomini