Erano passati un po’ di anni da Riportando tutto a casa (2009) quando, nel 2014 Nicola Lagioia, classe 1973, regala ai lettori La ferocia, insignito, l’anno successivo, dell’ambito Premio Strega.
A completare la produzione letteraria dello scrittore, per ora, troviamo solo altri due romanzi: Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (2001) e Occidente per principianti (2004), (che segna il suo passaggio dall’editore Minimum Fax a Einaudi).
Con Riportando tutto a casa e La ferocia, lo scrittore pugliese si è avvicinato a due sottogeneri del romanzo che hanno quasi sempre, trasversalmente, lasciato un segno nella storia della letteratura, ovvero il romanzo di formazione e il racconto familiare. In Riportando tutto a casa, il protagonista torna a Bari, la sua città natale, e da qui parte il racconto del fondamentale passaggio all’età adulta, avvenuto in un momento storico particolare, ovvero gli anni Ottanta: un misto di forzato divertimento e trasgressione dietro cui si nascondono le tante ombre di una città percepita e vissuta come provincia-periferia d’Italia. Dal decennio sentito storicamente come “l’inizio della fine” dei nostri giorni, Lagioia racconta la grande piaga della tossicodipendenza, che forse, prima di lui, solo Tondelli aveva saputo così tanto sentire nei suoi racconti.
Credo che per parlare de La Ferocia la premessa su Riportando tutto a casa sia necessaria; a mio avviso vi è un circolare di temi nella scrittura di Lagioia; probabilmente essi sono sentiti come delle urgenze, capaci di riemergere a distanza di tempo: ritorna la percezione della città-periferia, ritornano le incursioni in un mondo giovanile abbastanza problematico: dai problemi, ancora, di tossicodipendenza di uno dei personaggi secondari, alle problematiche della giovanissima Gioia, perfezionista ossessionata dalla figura della sorella maggiore scomparsa e dall’immagine. Gioia è inoltre protagonista di un morboso e malato rapporto con i social network, intravisto sullo sfondo come possibilità non ancora completata di raccontare il presente. Mi sono chiesta, a tal proposito, se Lagioia non ci sorprenderà ancora nei prossimi anni riallacciandosi a questa figura, a mio parere, solo apparentemente secondaria e creando un altro racconto realistico e privo di luoghi comuni su questo aspetto del nostro presente.
Nei momenti di ottimismo, Gioia si convinceva di essere lei a tenere unita la famiglia. Da qualche mese si era messa con un ragazzo. Lo aveva presentato alla mamma e al papà. Gli aveva fatto conoscere anche Clara. Bella e imperscrutabile in un vestito rosso di Diane von Fürstenberg, la sorella maggiore era venuta in villa accompagnata dal marito per festeggiare il trentaseiesimo compleanno. Il ragazzo di Gioia era rimasto turbato davanti allo splendore dei candelabri e ai vecchi mobili ridipinti, senza capire fino in fondo che la preziosità degli oggetti si rivelava quando facevano da sfondo a Clara.
Anche in La Ferocia dietro la maschera sorridente e opulenta della società borghese spregiudicata – negli affari, negli affetti, nel privato – si nascondono tanti mostri; tante storie incastrate tra loro. Tante esistenze che emergono solitarie dai salotti bene e dalle case lussuose. Un sud assolato, caldo, ma di un calore arido nel quale non si può non cogliere la tristezza e l’abbandono. La ferocia è tante cose, prima di tutto, come detto un racconto familiare: nel solco della più antica tradizione di questo genere, racconta la fortuna e la caduta della famiglia Salvemini, del padre Vittorio, arricchitosi senza scrupoli grazie alla capacità di innalzare ovunque, spregiudicatamente, palazzi e palazzine, ville, complessi: in barba ad ogni regola, stringendo le mani giuste, il capo famiglia è una delle tante facce dello sfruttamento estremo del territorio; arriva così la prima immagine di una terra martoriata. La speculazione edilizia è solo uno dei tanti volti di un presente minaccioso, dove niente è più sicuro e tutto sta per crollare, o forse è già crollato.
Il racconto inizia con il presunto suicidio di Clara, e tale episodio tragico non è il pretesto per segnare un momento luttuoso, da questo momento inizia una lotta: una lotta per coprire, seppellire, nascondere; l’ultimo tentativo prima del naufragio totale delle esistenze singole e della sorte del nucleo familiare. La morte improvvisa di Clara tinge quasi di giallo il romanzo, e riporta a Bari Michele, fratello allontanatosi prima forzatamente – a causa dei suoi disturbi mentali – e poi volontariamente dalla famiglia. Michele ritorna per fare chiarezza sulla morte di Clara e sembra arrivare da una dimensione estranea a quella terrena, porta con sé i suoi fantasmi ma anche quelli degli altri familiari. Soprattutto in Michele sembra ancora vivere la sorellastra morta, con cui, fino al suo allontanamento, ha avuto un rapporto complementare e complesso. Ma da questo allontanamento Clara inizia il suo declino, la sua sfida verso il mondo e verso sé stessa, la sua volontà di distruzione che si amplifica, e dai suoi rapporti finisce per estendersi su tutta la famiglia, e forse su tutta la città. L’incendio della casa appiccato da Michele, segna, simbolicamente l’inizio del declino.
Come in altri racconti familiari la casa è, ovviamente, primario simbolo dell’unità: ogni nucleo familiare in disgregazione vede crollare – metaforicamente e non – la propria abitazione, le grandi storie del Novecento ce lo raccontano, e Lagioia ce lo conferma.
A tal proposito getterei un occhio molto indietro a un romanzo italiano di inizio Novecento: Gli indifferenti di Alberto Moravia è stata l’eco che ho sentito primariamente in questo romanzo, non credo punto di partenza dello scrittore pugliese, ma, sicuramente, mio punto di riflessione. I membri della famiglia romana degli Ardengo serbano tra di loro un certo tipo di rancore, che nel mio immaginario letterario li ha molto accostati alla famiglia Salvemini. Dall’asprezza di questi rapporti nasce la crisi familiare, simbolo del crollo di una società – e di una classe sociale – rinnovato nel romanzo di Lagioia. Se qualcosa i racconti familiari hanno insegnato è che dietro di loro vi è sempre una lettura microscopica di un qualcosa di più grande che accade nella società; un cambiamento in corso, una crisi, non c’è metafora e pretesto più allettante di quello di una storia familiare per parlarne.
Già dall’incipit i Salvemini stanno perdendo la loro ricchezza e in questo caso nessun salvataggio arriverà dall’esterno come nel caso del romanzo di Moravia; l’epilogo de La ferocia segna l’impossibilità di non mantenersi più a galla, di non potersi più nascondere e metaforicamente il declino di una classe sociale spietata, appunto, feroce che implode. Nessun compromesso o malaffare riesce tenere in piedi i protagonisti: il crollo è definitivo, ed è interessante che il finale negativo sia proprio simboleggiato dallo stato di definitivo abbandono della casa.
La ferocia è un sentimento che muove molti dei protagonisti nelle loro azioni, è una forza che viene dall’oscurità delle loro anime ma poco ha di umano. La ferocia è della natura ed è la cifra della lotta alla sopravvivenza nel mondo spietato di tutti i personaggi che brancolano tra le pagine del romanzo. Moltissimi sono i riferimenti al regno animale, le descrizioni di laboriosi insetti ed esseri appena percettibili: sembrano muoversi nella stessa ombra dei protagonisti, così come la loro ferocia è la stessa della fortissima – e bellissima – scena del gatto scappato da casa Salvemini, che provato e distrutto dal suo vagare azzanna il topo in un confronto crudele capace di riassume metaforicamente, in poche righe, tutti i rapporti di forza del romanzo; «Lo sai qual è la disciplina che meglio spiega il nuovo secolo? […] l’etologia», chiarisce una delle battute finali del romanzo.
I personaggi de La ferocia devono reggere le regole di un gioco più grande di loro, più forte delle loro volontà: in un mondo diventato selvaggio, dove le regole sono cadute e ritornano a dominare giochi di forza, proprio come ne mondo animale, bisogna essere tutt’altro che razionali e comprensivi: bisogna essere feroci per ritagliarsi il proprio spazio di sopravvivenza.
Nei giorni precedenti, la gatta se n’era andata sbandando per le strade della città. Mischiata con frammenti di odori familiari, aveva sentito nell’aria una brutalità così ottusa da restarne stordita. Grandi buste d’immondizia. Il ferro inerte delle auto parcheggiate. E voci, frastuono ovunque. Man mano che aveva superato le ultime zone periferiche, la familiarità si era ridotta insieme con la speranza di ritrovare la via di casa. Un diverso tipo di brutalità riduceva lo spazio per qualunque cosa non fosse la sopravvivenza.
Quando spesso proviamo a chiederci chi sia l’erede di una tradizione letteraria italiana, e ci pare di non trovarlo, di certo dobbiamo ricordaci di Lagioia. Con la sua scrittura sta compiendo un enorme lavoro: un lavoro sull’utilizzo di un linguaggio mai povero o scontato, ma sempre ricercato e al contempo lineare. La sua non è solo tecnica, ma anche capacità di creare storie appassionanti per lettori di ogni tipo.
Da lettrice, ad ogni nuovo romanzo di Lagioia sento l’istinto di volerlo bacchettare per gli anni che so di dover aspettare per poterlo di nuovo leggere. Da amante della letteratura, ringrazio Lagioia per il suo essere così attento, così minuzioso: ringrazio Lagioia, soprattutto, perché ci ricorda che quello dello scrittore è un mestiere artigianale, che richiede tempo.
Anna Giordano
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