Vive in silenzio il Dio che ha purgato questa terra con sale e cenere.
Un senso di sorda impotenza e di fredda accettazione accompagnano Ed Tom Bell, il cui sguardo solitario è in quel momento rivolto ai polverosi arroyos. L’inarrestabile segugio sa indagare una pista, soprattutto se questa puzza di cadaveri massacrati ed è disseminata di un numero non trascurabile di pick up traforati o bruciati. Ma è il grande movente della divinità – che si cela dietro la linea luminosa dell’orizzonte desertico – a confondere l’occhio dello sceriffo di Sanderson.
Cormac McCarthy è figlio del suo tempo e della sua terra. È lo scrittore americano che meglio sintetizza l’insondabile conflitto degli opposti; che affida a un certo nichilismo esistenziale, perfettamente espresso dal pioneristico motto dostoevskijano “Se Dio non esiste allora tutto è permesso”, il compito di spiegare il deragliamento del sistema di valori morali e religiosi degli strati americani più conservatori. A scanso di equivoci: sul piano etico è ben lontano dal convenzionale rigore cristiano; ma come è naturale che accada, essendosi plasmato all’ombra dei più freddi insegnamenti della scuola cattolica, risente di un certo interesse e influsso di natura biblica. Le sue creature letterarie camminano su un territorio vasto e spregiudicato: dal luogo natio, il Tennessee, si spingono fino al Texas, patria adottiva; e talvolta superano la frontiera. Queste sono state galvanizzate dalle vecchie storie del western e dai suoi fantasmi, che infestano fantastici paesaggi assopiti nell’aria, lungo la strada che conduce al Sud. Nulla di più statunitense del mitico topos della “road” è assimilabile allo scrittore, che Harold Bloom ha definito nel Canone, una delle quattro perle della letteratura americana contemporanea insieme a Roth, De Lillo e Pynchon. Ma quel tipico cliché letterario attraversa con McCarthy una sorta di crisi, è in una fase di totale trasformazione, essendo le sue finalità ormai cambiate; o per usare le parole di Nicola Turi: si avvia al capolinea.
E in effetti la chiave di volta dell’intero immaginario dell’autore è un non celato intento di distruzione, facilmente individuabile nella costante ricerca di figure o fatti violenti, che (volutamente) stridono nella tranquilla solitudine degli elementi naturali circostanti. La desolazione geografica è anche un’arma potente nelle mani degli assassini e ottima alleata della morte. O almeno, in Non è un paese per vecchi le cose stanno esattamente così. La rottura dell’equilibrio iniziale corrisponde al ritrovamento da parte del veterano di guerra, Llewelyn Moss, di una raccapricciante scena del crimine in una piana nel deserto: è qui che si interrompe la progressione di eventi totalmente normali della sua vita. La decisione di portare con sé una cartella, rinvenuta sul posto, contenente due milioni e quattrocentomila dollari, rappresenta per l’ex soldato (da quel momento anche ex saldatore in pensione, come sosterrà lui stesso) l’imbocco di una strada dritta e pericolosa.
La presenza umana rappresenta per McCarthy un lusso fin troppo grosso, che è giusto concedersi nel rapido incedere del romanzo, ma pur sempre con moderazione e coerenza. Flora e fauna sono invece gli elementi principali delle sue sequenze narrative, e proprio quest’ultime vengono trasformate per ricchezza di particolari descrittivi in magnifici sfondi cinematografici. Sul principio nella sequenza dello scioglimento, poco prima di accorgersi dei numerosi corpi che più avanti giacciono senza vita nella polvere, Moss viene attratto dalla lontana figura di un cane nero ferito e zoppicante. È il primo grande presagio di morte disseminato dall’autore lungo il percorso, per creare suspense e attesa. Dopo pochi minuti- così resi dalla penna e percepiti dal lettore- avviene il celebre ritrovamento: il deserto si popola, ma di assenze, per l’esattezza di nove cadaveri.
Come sarà stato ben facile dedurre, la grande nube, asfissiante e velenosa, che incombe sul laboratorio artistico di McCarthy è la morte con le sue varie forme. Talvolta essa è solo paura del futuro; altre invece diviene minaccia reale, reincarnata in individui dalla natura e dalle qualità a dir poco disumane. Anton Chigurh non è solo la personificazione del male, quello che sbatte in faccia la sua drammatica evidenza; è un cacciatore infallibile, un cane sciolto, l’emblema dell’individualismo estremo: assoldato da un narcotrafficante (di cui l’autore tace volutamente l’identità, essendo questa irrilevante) per recuperare il denaro rubato da Moss, è disposto per riuscirci, a togliere di mezzo ogni ostacolo desunto o presunto. Dall’apparente follia omicida di questo personaggio emerge un insolito e freddo moralismo, la cui natura è solida e incorruttibile. «Chigurh è un uomo strano. Si potrebbe addirittura dire che ha dei saldi principî. Principî che vanno al di là dei soldi, della droga e di altre cose del genere». Wells – secondo cacciatore scelto che incalza Moss – riassume perfettamente il giudizio del suo stesso creatore, su colui che gli altri considerano l’«uomo più cattivo di tutti i tempi». Difficile individuare le sue mosse, leggere nella mente di un fantasma che spesso ritorna sui suoi passi, eppure in maniera totalmente imprevedibile, per recuperare ciò che resta del bagaglio personale delle vittime mietute. In questo gelido angelo della morte può essere intravisto il grande paradosso del romanzo di McCarthy e insieme la sua reale spiegazione, perché Anton Chigurh è l’unica divinità ammissibile nell’universo romanzesco dell’autore: «La gran parte della gente non crede che possa esistere una persona del genere. È evidente che per loro è un bel problema. Come si fa a sconfiggere qualcosa di cui si rifiuta di ammettere l’esistenza? Capisci? Quando sono entrato nella tua vita, la tua vita era finita». Questa figura permette allo scrittore e ai lettori di fornire una risposta per tutte le perdite umane, le improvvise assenze ingiustificate, incongruenti con i moventi della giustizia divina, che la teodicea prima e il nichilismo esistenziale poi, tentarono di spiegare. Dirà invece il buon e saggio sceriffo Bell nell’epilogo:
quando incontri certe cose nel mondo, la prova dell’esistenza di certe cose, allora capisci che quello che hai di fronte potrebbe essere superiore alle tue forze, e sono convinto che questa è una di quelle cose. Una volta stabilito che è vera e che non te la sei sognata, non credo che hai fatto un grande passo avanti.
D’altro canto queste parole riflettono la disillusione dello sconfitto, del vecchio uomo sul finire del suo ciclo, che ha lasciato alle spalle previsioni, ipotesi e piste possibili, per guardare in faccia il realismo della colpa e del peccato.
Il Texas rivive in questo romanzo in due forme distinte, che hanno vite parallele eppure così incredibilmente dipendenti nelle confessioni di Ed Tom Bell: ognuno dei tredici capitoli presenta un monologo introduttivo steso dal capo della polizia di Sanderson. Lo stile è incredibilmente dismesso, costruito su frasi secche e periodi semplici, in una successione a tratti atonale e priva di respiro che denota un certo disinteresse o forse il disincanto emergente di chi è stato tradito da ciò «che accadeva un tempo». Se dedurre le caratteristiche e gli intenti di Chigurh costituisce la vera sfida lanciata da McCarthy al suo pubblico, decisamente meno arduo è comprendere il profilo del vecchio ufficiale; è lui stesso a parlare di sé, della scelta di entrare in polizia, della guerra, di come prima «capitava una scazzottata da qualche parte e tu andavi a dividere quelli che se le davano», e di come ora «diventa sempre più difficile» prevedere «quello che sta per capitare».
Le prime prove letterarie di McCarthy risalgono ai quattro anni nell’esercito, tra un turno di guardia e l’altro. All’epoca il suo sguardo sulla vita è pieno, ancora ebbro di speranza e completamente concentrato sulle miserie del mondo. A differenza dei suoi personaggi Moss e Wells, non ha avuto modo di osservare la realtà della guerra in Vietnam e di comprendere le atrocità e le ingiustizie con cui giovani americani impreparati sono stati costretti a misurarsi a causa di una ragione politica superiore. Ora da vecchio ai margini della vita pubblica, sprofondato tra le numerose scartoffie impolverate delle sue storie, ha fatto dell’isolamento un posto in prima fila per osservare e tirare un bilancio sull’assetto del paese. L’inganno dell’epoca passata che lo sceriffo ritiene d’aver subito, rappresenta l’inganno dello stesso autore, che avverte tutta l’impossibilità di vivere nella dimensione attuale. A William Butler Yeats è ispirato il titolo originale del romanzo: «That is no country for old men» è il primo verso di Sailing to Byzantium, una sorta di resoconto finale dell’irlandese che fa i conti con la vecchiaia ormai raggiunta. «Sto ora cercando di scrivere sulla condizione della mia anima, perché è giusto che un vecchio si prepari alla morte, e alcuni dei miei pensieri su quell’argomento si trovano in una poesia dal titolo Sailing to Byzantium». Non è un caso quindi che lo statunitense si riallacci proprio al testo poetico novecentesco che meglio sintetizza la necessità da parte dell’ anziano saggio di fuggire la vita attiva del proprio paese: il rifugio di Yeats è la simbolica città turca, rappresentazione della promozione spirituale; per McCarthy è il buio della sua fabbrica letteraria; e per Bell è la scelta di arrendersi di fronte al dilaniante e sempre crescente traffico di droga nella contea, rinunciare a catturare Chigurh, e andare in pensione.
Quando accetti di salire sulla giostra in genere pensi di avere almeno una vaga idea di dove ti porterà. Ma forse non lo sai. Forse ti hanno mentito. A quel punto probabilmente nessuno ti darebbe torto, se la piantassi lì.
Siamo qui molto lontani dal romanzo di formazione che compie il suo ciclo sulla road, nonostante le storie giovanili ricordate dallo sceriffo Bell abbiano come sfondo proprio la statale infervorata a mezzogiorno. Lungo l’asse rettilineo non si produce alcun tipo di integrazione, ma piuttosto esso si trasforma per l’ufficiale di polizia in servizio in un luogo di angoscia e turbamento: «Il punto è che quando fermi qualcuno non sai mai chi stai fermando. Ti metti sulla statale. Ti avvicini a una macchina e non sai cosa puoi trovare». Nella vicenda poliziesca che vede l’assassino senza scrupoli sulle tracce del giovane reduce di guerra, la strada si trasforma in un luogo di esclusione e distruzione, perché permette a Moss di porre chilometri di distanza tra lui e tutti i suoi inseguitori e a Chigurh di mietere vittime, indisturbato. Su di essa si muovono i tre grandi protagonisti del romanzo, ha luogo la lotta per la sopravvivenza, ed a partire da essa viene scandito l’insistente ritmo del tempo in un costante crescendo di tensione. Inoltre anche qui McCarthy ha cura di lasciare funesti presagi, come a voler ricordare al suo lettore, che qualsiasi piega prenda quella storia, la morte è lì che incombe su tutti i concorrenti in gioco: «Viaggiando sulla 90 verso l’uscita di Dryden, Bell si imbatté in un falco morto in mezzo alla strada».
Moss, Bell e Chigurh non si incontrano quasi mai e quando ciò accade, viene taciuto attraverso strategiche ellissi. Non è mai stato nelle intenzioni dello scrittore relegare alla vicenda il solo obbligo di un epilogo spettacolare nella drammaticità dell’azione e negli effetti sanguinari; la vera notizia è prendere gradualmente coscienza di come percorsi diversi e scelte differenti abbiano influenzato minimamente i destini delle sue tre grandi pedine lungo le strade del Texas. Quando Moss ferito gravemente sceglie di spingersi oltre la frontiera, lascia El Paso per rifugiarsi nell’ospedale messicano di Piedras Negras e qui trova ristoro interrompendo momentaneamente la folle fuga; dopo qualche giorno il suo assalitore, ripresosi dai colpi a sua volta subiti, riprende la caccia: potrebbe scegliere di porre fine a tutto, braccando il fuggitivo nello stesso letto di cura; eppure sceglie di non farlo. Anton Chigurh non ha mai avuto dubbi sull’esito della sua missione, e non ha mai creduto che qualcuno potesse sfuggirgli. Il determinismo spietato che fa capo alle sorti dei personaggi stabilisce un inizio e una fine, quasi istantanei e non lascia esitazione alcuna riguardo la piega che prenderà la storia. Riprendendo le parole di moralistico commiato del boia: «Quando sono entrato nella tua vita, la tua vita era finita. Ha avuto un inizio, uno svolgimento e una fine. Questa è la fine. Puoi dire che le cose sarebbero potute andare in un altro modo. Che avrebbero potuto essere diverse. Ma questo che significa? Non sono diverse. Stanno così» e sempre infliggendo i suoi ultimi apocalittici insegnamenti alla vittima dirà che «La strada di una persona nel mondo cambia raramente, e ancora più raramente cambia all’improvviso. E la direzione della tua strada si vedeva fin dall’inizio».
Oltre il lembo che copre le storture di un’apparentemente incedibile fortuna americana, esiste la realtà di Non è un paese per vecchi. Nelle ultime pagine del libro le confessioni di Bell compiono un’incursione sempre maggiore nella trama del poliziesco, il cui palinsesto ha ormai esaurito quasi tutta la programmazione; così il tradimento dell’America ai danni del vecchio sceriffo si mescola ai rimpianti e alle riflessioni dei sopravvissuti all’arma del grande boia e l’assassino più cattivo di tutti finisce per coincidere con il male senza tempo che da sempre spira nelle terre dei nativi padri pellegrini. Perché la saggezza della vecchiaia permette di vedere tutta la strada, di guardare ciò che «ci si è portati dietro», di osservare tutti i passi compiuti lungo una direzione già desumibile dai suoi inizi.
Il fatto è che il paese era a pezzi. E lo è ancora. Non era colpa degli hippy. E non era colpa neanche di quei ragazzi che venivano mandati laggiù. A diciotto o diciannove anni. […] La gente dice che è stato il Vietnam a mettere in ginocchio questo paese. Ma io non ci ho mai creduto. Questo paese era già messo male. Il Vietnam è stata solo la ciliegina sulla torta. Non avevamo niente da dare a quei ragazzi da portarsi dietro. In pratica se li mandavamo senza fucili era la stessa cosa. Non si può andare in guerra in quel modo. Non si può andare in guerra senza Dio. Io non so cosa succederà quando arriverà la prossima. Non lo so proprio.
Francesca Ciaramella
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