George Saunders ha pubblicato finora soltanto raccolte di racconti anche se sembra imminente l’arrivo in libreria del suo primo romanzo: scrive per il New Yorker, il Guardian, GQ e per il New York Times e periodicamente, provando a dare un senso compiuto, raccoglie i suoi scritti in un unico volume.
Saunders è per questo un autore scomodo per le dinamiche editoriali italiane.
Ormai da qualche tempo gli addetti ai lavori stanno denunciando la tendenza, forse superata da nuove e recenti iniziative, delle case editrici a celare la forma breve del narrare dietro l’etichetta di “romanzo”. Descrivo alcuni casi. I racconti di Chi ti credi di essere? della Munro sono presentati dall’Einaudi, cito, “come dieci capitoli di un anomalo romanzo di formazione, i racconti di questa raccolta delineano il personaggio di Rose”, certo qui, forse per pudore e rispetto dell’autrice, il termine racconto viene fuori ma lo stesso trattamento dalla stessa casa editrice non viene riservato per Oblio di Foster Wallace dove i capitoli sono bollati come “otto romanzi brevi in cui Wallace gioca felicemente fra le macerie della realtà, aprendo nuove vie, nella scelta sia del tema come della forma più originale e sorprendente…” e via dicendo. Ma non è Einaudi l’unica colpevole, nell’editoria italiana il vizio è diffuso: Sellerio trasforma in “undici brevi romanzi” I miei documenti di Alejandro Zambra e Fazi concentra nella semplice etichetta in copertina “romanzo” Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, libro nel quale, in alcuni racconti, o capitoli restando in linea con l’editore, la Olive del titolo neanche compare o si muove sullo sfondo.
I casi sono molteplici e non si salvano Bompiani, Feltrinelli e compagnia bella.
Insomma, usare la parola racconto in sinossi sembra essere stato per lungo tempo un tabù, giustificato talvolta dalla percezione frammentata della raccolta che ha il lettore di fronte a un libro le cui parti non sembrano essere legate in alcun modo. Paolo Repetti, fondatore con Severino Cesari della stessa Stile Libero, a tal proposito dichiara: “È vero, a volte non si mette neanche la parola racconti, né in copertina né altrove. C’è una tendenza da parte dei librai a ordinare meno copie dei libri di racconti, e storicamente è un fatto che vendano meno. Credo perché a differenza del romanzo non hanno il ‘fattore immersivo’: il racconto viene percepito come un’esperienza più letteraria che esistenziale, quasi un’abitudine più sofisticata rispetto al romanzo”.[1]
Che sia il più bel libro in cui ci si sarebbe potuti imbattere nel 2013, però, non ne sono certo. Sono storie irreali quelle di Saunders, certamente assurde – prendendo con le pinze questo termine – che se non godessero d’un immediato riscontro con la realtà contemporanea si risolverebbero soltanto in vuoti esercizi di stile, dove artificiosità e trovate cerebrali potrebbero lasciare indifferente chi legge. Anche perché l’autore sembra chiedere continua partecipazione al lettore, quasi a volere una vera e propria interazione, una partecipazione alla letteratura in atto.
Ambizioso, ma affascinante per una certa razza di lettori.
La raccolta manca poi di unità stilistica e tematica, perché raccoglie scritti che vanno dal 1995 al 2009. È però possibile rincorrere qualche filo rosso tra le storie. Provo a inseguirne alcuni, magari proponendo degli esempi.
I personaggi di Saunders non pensano, e se lo fanno ciò accade a un’altezza che corrisponde ai nervi in superficie. Ognuno di loro è la somma delle sensazioni che prova. Sembra essere un elemento caratteristico della sua scrittura che si accentua in Fuga dall’Aracnotesta, dove le sensazioni sono dominate da farmaci in sperimentazione o in Le ragazze Semplica, dove donne immigrate vengono ridotte a ornamento da giardino per feste per bambini grazie all’aiuto della chimica.
Restai piacevolmente assorto in questi pensieri fino a quando l’effetto del Verbaluce® cominciò a scemare. A quel punto il giardino tornò a sembrarmi solo bello. Com’era quella storia dei cespugli eccetera? Ti veniva solo voglia di stenderti al sole e pensare beatamente ai fatti tuoi. Non so se mi spiego.
Poi venne meno anche l’effetto di non so quale altra sostanza nella flebo, e il giardino non mi fece più né caldo né freddo. Avevo la bocca secca, però, e la solita sensazione post-Verbaluce® allo stomaco.
Saunders si muove entro l’orizzonte di quella fetta della classe media americana terrorizzata dall’idea di somigliare, e per stile di vita e per patrimonio, alla classe povera piuttosto che a quella abbiente. Concezione che si estende al filosofema: se non posseggo, non sono. E che si risolve nella nevrotica attenzione che i personaggi rivolgono alla Corporate America (cioè le multinazionali) alternando stati di forte eccitazione ad altri di timore e terrore, in base a come ci si rapporta alle aziende.
Povera Lilly. Suo viso dolce e speranzoso da piccola, con corona di Burger King in testa, e adesso questo? Non sapeva che suo destino non da principessa ma da bambina povera. Un po’ povera. Non proprio ricca.
Nel sondaggio fatto in classe aveva votato che la gente era buona e la vita divertente, e la Dees le aveva lanciato uno sguardo di compatimento sentendola dichiarare le sue opinioni: Per fare il bene, devi decidere di fare il bene. Devi essere coraggioso. Difendere ciò che è giusto. Lì la Dees aveva cacciato una specie di gemito. Comprensibile. La Dees soffriva tanto nella vita ma, stranamente… Era ovvio che trovava ancora qualcosa di divertente nella vita e del buono nelle persone, se no perché alle volte restava alzata fino a tardi per correggerti i compiti e il giorno dopo arrivava sfinita, con la camicetta alla rovescia, perché si era vestita al buio di prima mattina, povera scombinata che non era altro?
L’elemento umano che emerge nei momenti di difficoltà porta in sé, di certo, i germi di quel discorso tenuto l’11 maggio 2013 davanti ai laureandi della Syracuse University da Saunders. In quell’occasione lo scrittore americano, rievocando i momenti di gentilezza mancati nel suo passato ha proposto agli ascoltatori, intesi come future generazioni, di praticare la gentilezza, non quotidianamente ma in quegli attimi in cui appare necessaria per tenere in buone condizioni la nostra mente e far spazio all’amore, al senso dell’umorismo, alla solidarietà e, appunto, alla gentilezza nella nostra esistenza.
C’è un equivoco, in ciascuno di noi, anzi, una malattia: l’egoismo. Ma esiste anche una cura. […] Scoprite cosa vi rende più gentili, cosa vi libera e fa emergere la versione più affettuosa, generosa e impavida di voi stessi – e cercatelo come se non ci fosse niente di più importante. Perché, in effetti, non c’è niente di più importante.
Dieci dicembre non è il più grande capolavoro comparso sugli scaffali delle librerie dall’inizio del nuovo millennio a oggi. Però è un buon esempio di letteratura consapevole in grado di parlare a un pubblico ampio, e nelle sue forme meno consumate e nell’universalità dei suoi temi.
Antonio Esposito
[1] Fonte: https://www.vice.com/it/article/non-siamo-interessati-ai-racconti-grazie-a12n1
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