Un buon modo per parlare de L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers è iniziare dalla prefazione. Non per rispettare l’ordine progressivo delle pagine del libro, né per il capriccio intellettuale di restituire dignità a una sezione che il lettore medio tende a ignorare, ma perché già in questa importantissima parte iniziale l’autore dà ottima prova delle sue impareggiabili capacità di scrittore sensibile e pungente. Da questo punto di vista, tutta la parte che precede la narrazione vera e propria non ha assolutamente nulla da invidiare al racconto che ha la funzione di introdurre e illustrare. Si potrebbe anche dire che LOSDUFG – ormai è invalso l’uso di chiamare il romanzo con un acronimo – non avrebbe lo stesso valore senza questa porzione anticipatoria. Si comincia con “Regole e suggerimenti per apprezzare al meglio questo libro”, in cui Eggers compie qualcosa di insolito – ma non di nuovo nel panorama letterario recente – ammettendo che il libro stesso è «piuttosto diseguale», non sempre «maneggevole», e che parecchi lettori potrebbero provare il desiderio di saltare tutte quelle pagine
che riguardano l’esistenza di un gruppo di ventenni la cui vita è decisamente difficile da rendere interessante, anche se a coloro che la stanno effettivamente vivendo lo sembra davvero.
Si direbbe che Eggers abbia voluto giocare d’anticipo, non soltanto avvertendo i lettori, ma facendosi anche un po’ beffe delle case editrici, del mondo editoriale intero, nel momento in cui decide di riportare per intero alcuni brani che erano stati espunti dalla revisione finale. Più difficile, invece, è comprendere dove si collochi quella commistione di sfacciataggine e fantasia rappresentata dal titolo: il genio in questione è l’autore stesso, e l’opera struggente è proprio il libro che teniamo tra le mani. In una delle poche interviste che abbia concesso, Eggers ha dichiarato di trovare divertente attribuire alla sua creatura un titolo così altisonante quando, in realtà, non nutriva alcuna fiducia nei confronti delle proprie capacità. Ma è davvero così? Fino a che punto l’autore crede a ciò che dice, e noi lettori siamo autorizzati a concedergli la nostra fede incondizionata?
Era il 2000 quando Dave Eggers fece il suo d’esordio per i tipi di Simon & Schuster, arrivando a sfiorare il premio Pulitzer, e da allora ha dato alle stampe sette romanzi e svariati racconti, ha fondato la casa editrice McSweneey’s e la rivista letteraria che porta il medesimo nome, ed è diventato una delle voci più ascoltate nel campo del giornalismo e della letteratura dei giorni nostri. Nato a Boston nel 1970, si è trasferito in giovane età con la famiglia in un sobborgo di Chicago, da cui prende le mosse il racconto dell’Opera struggente (in originale A Heartbreaking Work of a Staggering Genius). La finestra che si apre sulla vita degli Eggers è già offuscata, fin dalle pagine d’apertura, dal velo nero del cancro, che sta divorando la madre dall’interno e di lì a poco porterà via con sé anche il padre. La loro è la normale esistenza della classe media benestante non particolarmente agiata – oltre a essi e all’autore/narratore, compongono il nucleo familiare i fratelli maggiori Bill e Beth e il piccolo Toph – in cui la routine, l’omologazione e il quieto vivere sono il costume diffuso di una cittadina di provincia, che di rado viene turbato da avvenimenti fuori dall’ordinario. La dipartita dei genitori impone al giovane Dave, poco più che ventenne, di farsi a sua volta padre e madre per Toph, di soli sette anni, mentre egli è ancora alla ricerca di una direzione da dare alla sua vita, immerso nel bisogno di vivere intensamente e di dare un senso a ogni istante.
Da qui in poi, la storia segue i due fratelli alla volta di Berkeley, il più piccolo alle prese con la scuola e le partite di baseball, e il più grande con l’affitto da pagare, alcune brevi relazioni di natura perlopiù sessuale, e la ricerca di un lavoro, che si concretizza poi nella fondazione (reale) del magazine Might. E mentre tutti e due traslocano, giocano a frisbee sulla spiaggia e fanno inspiegabilmente tardi a ogni festa, riunione o appuntamento che sia.
A rafforzare la dimensione autobiografica e di non-fiction intervengono il linguaggio strettamente colloquiale, i numerosi riferimenti al lettore e al testo che stiamo leggendo – Eggers fa parlare i suoi personaggi come se avessero la consapevolezza di dover finire in un libro – e la continua autocritica che l’autore fa di sé, delle sue azioni e intenzioni, usando quegli alter ego letterari, il suo, quelli dei fratelli e degli amici, per contraddire o rivedere quanto ha appena detto. È un espediente che riesce a mettere in crisi il personaggio che racconta, o quantomeno a rivelare lo stato di crisi in cui versa, e che al di là dei fatti come ce li descrive c’è anche qualcos’altro, un proposito malcelato o un differente punto di vista. È quel che accade quando la redazione di Might pianifica un servizio sulla presunta scomparsa di un ex attore bambino, tale Adam Rich (anche lui reale), con la complicità di quest’ultimo. Ecco uno stralcio di un dialogo tra il protagonista e suo fratello Toph:
«E l’argomentazione che più vi preme esprimere è che voi potreste essere delle celebrità proprio come lui. Tu pensi di lui che è una testa vuota, un mezzo scemo, e la sua stupidità nasce principalmente dal fatto che lui è una celebrità e voi no, che a nove anni lui se ne andava in giro con Brooke Shields, che milioni di persone conoscevano il suo nome e altre centinaia di milioni il suo volto, mentre nessuno conosce il vostro.»
«Toph, guarda che stai uscendo di nuovo dal tuo personaggio.»
L’ultima battuta, pronunciata da Dave, dimostra che, per quanto Toph sia il suo interlocutore, quelle parole non appartengono effettivamente a un ragazzino di poco più di dieci anni. In quel momento, Toph è un altro personaggio nelle mani dello scrittore, che se ne serve per mettersi di fronte a un altro se stesso, una sua controparte che ne sveli i pensieri che lui fatica ad ammettere. E qui torniamo alla domanda che ci siamo posti sopra: quanto c’è di vero in tutto questo? Quanto è successo veramente, e quanto è finzione?
Se ci rimettiamo all’autore, le sue memorie sono il frutto sincero e incondizionato di un’esperienza vissuta così come ci viene consegnata, senza filtri, senza alterazioni. Real life nuda e cruda. Naturalmente, con qualche eccezione, che Eggers si premura però ancora una volta di sottolineare
Il dialogo ovviamente è stato quasi del tutto ricostruito. Esso, sebbene nella sostanza sia vero – con eccezione di ciò che evidentemente non lo è, come ad esempio quando qualcuno spezza il continuum narrativo spazio-temporale per parlare fino alla nausea del libro stesso – è stato scritto sulla base di ricordi, e riflette sia i limiti della memoria dell’autore sia gli ammiccamenti della sua immaginazione.
La questione è intrinsecamente legata alla repulsione che Eggers manifesta nei confronti della parola “ironia” e di ciò che esprime. Egli ci avverte che non c’è ironia nel suo racconto, che avrebbe turbato la veridicità della narrazione e l’autenticità delle emozioni, ma soltanto un sacco di formal fun. Chi abbia letto L’opera struggente di un formidabile genio noterà, tuttavia, quanto sia difficile sfogliare questo libro, pagina dopo pagina, e trattenere il sorriso, senza notare che l’ironia trasuda da ogni capitolo. Ironia che, attenzione, non appartiene all’autore, ma al personaggio. Se è vero che il racconto in sé non presenta alcuna alterazione, nemmeno quella propria dell’ironia, è altrettanto vero che il Dave Eggers che compare nel libro si diverte a mescolare le carte in tavola, a fingersi qualcun altro, a raccontare delle mezze verità, e lo fa con risultati oltre modo divertenti.
«E come sta tuo fratello?»
«Bene, grazie.»
«Non mi ricordo come si chiama.»
«Toph.»
«E dov’è?»
«Toph? Oh, non lo vedo da settimane.»
«Cosa intendi dire?»
«Voglio dire che a quest’ora credo che si trovi non so se in Sud o in Nord Dakota»
«Cosa?»
«Sì, guarda, ha dato di matto. Un bel giorno ha preso e se n’è andato. In autostop. In giro per il paese con degli amici.»
«Stai scherzando.»
«Vorrei.»
«Mi spiace davvero tanto.»
Non sono sicuro del perché lo faccio. La gente mi pone domande e io, prima che possa formulare una risposta orientata verso la verità, mento.
La malattia è, probabilmente, l’unica cosa di cui, in tutto il romanzo, non si riesce proprio a ridere. Che si tratti della depressione di John, del coma di Shalini o del cancro dei genitori, è decisamente difficile trovare qualcosa di buffo nella malattia, ancor più che nella morte. È il timore della decadenza, della trasfigurazione, della vecchiaia a generare orrore. La morte, seppure triste e tragica, può essere occasione di riscatto e trasformarsi in un ultimo, eroico momento di grandezza e di riflessione. Lo dimostra il già citato caso di Adam Rich. In un libro che si apre con la scomparsa dei propri genitori, l’autore intrattiene un rapporto ambiguo con la morte fino alla fine. La teme, ne è incuriosito, se ne burla. E alla fine viene fuori che non è la morte la cosa peggiore che ci possa capitare, ma è scomparire nel nulla. Senza lasciare traccia di sé.
LOSDUFG è il gigantesco tentativo di lasciare quella traccia, di dare sfogo ad un ego esorbitante che misura tutto il mondo sulla base di ciò che riesce o non riesce ad afferrare, e che ha disperatamente bisogno di poggiare la penna sul foglio. Suzette Henke ha giustamente parlato di scriptotherapy, in riferimento alla necessità di Eggers di indirizzare da qualche parte il proprio egotismo, di comprendere cosa ha significato la perdita di un padre e una madre, di dare un senso alla sua vita. E la cura è il libro stesso. Paradossalmente, sarà proprio quel libro a consegnare al tempo a venire un’immagine imperitura di Dave Eggers, più di un’apparizione in tv, più di Might, più di tutte le persone che ha conosciuto, frequentato, intervistato, con cui è andato a letto o ha bevuto una birra. Anche se la conquista finale è la consapevolezza che la vita non dura per sempre, la giovinezza non dura per sempre, l’inverno prende il posto della primavera, non possiamo fare a meno di sperare nell’immortalità.
Cazzo, dicevamo a tutti, avreste dovuto vedere Skye. E in realtà è ancora possibile. Andate a noleggiare quel film, Pensieri pericolosi. C’è lei, che cammina e parla. Non ha scritto lei le sue battute, e a quel tempo avrà avuto diciannove o vent’anni, ma eccola lì, per sempre, che cammina e che parla, e mastica gomma. Che tipa che era.
Andrea Vitale
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