C’è chi direbbe che le ragioni del remake non siano del tutto asservite a una logica affarista. Che il reboot sia consigliabile, se non addirittura necessario, in un’epoca di rivolgimenti sociali e culturali, quando andare avanti come se niente fosse è praticamente impossibile. Che non tutto ruoti attorno al vil denaro, anche in un’industria che fattura miliardi ogni anno quale è Hollywood. Che qualche volta, dietro al remake di un film con evidenti intenti didascalici e/o propagandistici, ci sia la volontà di riproporre un messaggio quanto mai attuale, o di affermare l’esatto opposto.
Il remake, a onor del vero, non è un’impresa da prendere sotto gamba. Soprattutto se il film in questione è oggetto di una particolare venerazione, bisogna maneggiare coi guanti di velluto il copione originale, pena le ire e la delusione dei fan. Se a dominare sono unicamente gli interessi economici si rischia di dimenticare che chi paga il biglietto alla lunga si stanca di formule ripetitive e contenuti inesistenti. Lo stesso vale per il sequel. Un conto è proseguire una storia che nasce dalla pagina scritta (e qui potremmo citare alcune delle più famose saghe letterarie trasposte sul grande schermo), e un conto è inventarsi un
È pressappoco quel che è successo con la recente ondata di sequel, remake e affini che ha invaso il cinema nei mesi più caldi, per ragioni che variano da caso a caso, ma che si potrebbero riassumere genericamente in una formula: mancanza di idee. Prendete Independece Day – Rigenerazione, e la battaglia tra alieni e umani che si staglia su una trama inesistente. Uno di quei film che servono unicamente a dare sfogo ai tecnici degli effetti speciali. Anche Ghostbusters, reboot della pellicola del 1984, prova ad azzerare il passato cinematografico degli acchiappafantasmi proponendone una versione al femminile. Il risultato? Lodevole il tentativo di caratterizzare i personaggi al di là della loro professione, mentre le gag mancate, un villain da quattro soldi e lo spazio, tutto sommato ridotto, concesso agli ectoplasmi finiscono per dare ragione ai fan che restano fedeli a Bill Murray.
Per le ragioni opposte, Alla ricerca di Dory è stato salutato con un entusiasmo che forse neanche i produttori si aspettavano. A metà tra il sequel e lo spin-off, questo film d’animazione ripropone, apparentemente, lo stesso schema del precedente – il bisogno di ritrovare i genitori come viaggio alla scoperta della propria identità – ma spostando la
Mancanza di idee, si diceva. Rinnovare una saga o una storia vecchia di oltre mezzo secolo richiede per forza una buona idea. Sembrerà banale, ma a quanto pare non tutti l’hanno capito. Il pubblico sì, per fortuna, tanto da provocare un netto calo di incassi addirittura per quei film che rispondono agli standard di maggior successo degli ultimi anni: effetti speciali, atmosfere leggere da commedia, scene d’azione ad elevato tasso adrenalinico. Basti pensare che Alice attraverso lo specchio (di cui abbiamo già parlato) si è assestato a quota 300 milioni, mentre Alice in Wonderland, nel 2010, volò sopra il miliardo. Segno che l’usato non è più poi tanto garantito?
Andrea Vitale
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