Casa d’altri: breve storia di assenze e di dimenticati
Capitano a volte per caso tra le mani vecchi libri, che avevi già letto ma che il tempo ti ripropone perché la tua consapevolezza cambia ogni volta che giri quelle pagine. E così mi ritrovo a rileggere un romanzo breve, poco conosciuto, giudicato da Montale un “romanzo perfetto”, apprezzato da Bertolucci, Pasolini, gente che un poco se ne intendeva, sicuramente più di me. Uno dei più bei racconti del ‘900 italiano: Casa d’altri[1] di Silvio D’arzo, scrittore reggiano pseudonimo di Ezio Comparoni, morto nel 1952 a soli 32 anni per leucemia.
Solitudine, Silenzio e Morte sono le parole chiave di questo capolavoro.
Un prete sessantenne, conosciuto anche col giovanile appellativo di Doctor Ironicus, di un piccolo paese emiliano, Montelice, tre o quattro anni dopo la seconda guerra mondiale, in un luogo dove non succede mai nulla, al di là di quelle case i cui colori si ripetono nella storia come una cantilena,
L’aria fuori viola e viola i sentieri e l’erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti…c’è quassù una certa ora. I calanchi si fanno color ruggine vecchia e poi viola, e poi blu..le capre si affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri. E non c’è sole né luna nel cielo
viene inaspettatamente sconvolto da un grande cruccio: Zelinda, vecchietta e vedova che nella sua esistenza altro non fa che lavare panni e budella al fiume, accompagnata da una capra che sembra più viva di lei.
Gli scrittori del Novecento hanno tutti egualmente indicato in questo racconto l’exemplum della perfetta struttura del raccontare in quanto basato su niente, senza temi forti come la guerra o l’amore, la vita o la morte, con protagonisti ridotti al minimo: un vecchio prete ed una vecchia lavandaia.
Zelinda, dicevamo, il prete è catturato dalla sua evasività. Tra i due nasce un rapporto di “assenza” e come Walter Benjamin affermava:«Il più alto grado di presenza è l’assenza.» Doctor Ironicus passerà il tempo a osservare Zelinda da lontano, e lei lo vedrà e lo ignorerà, fino a quando non compie l’inaspettato gesto di far recapitare al curato una lettera, che però passerà a riprendere nelle poche ore successive. Così l’uomo offeso dal gesto, poichè considera quella missiva come oramai sua, andrà a trovarla, tra i due ci sarà perciò un ulteriore incontro, il più profondo. La vecchia riuscirà finalmente a presentare al pastore d’anime il dubbio che le rende grave la vita; e egli, stordito, non riuscirà a fare altro che rispondere
così goffamente da provare vergogna di tutte le parole del mondo,
parole convenzionali e prive di qualsiasi anima taumaturgica.
Il tragico è entrato in scena, la tragedia del vivere, la consapevolezza della pesantezza della vita; il vecchio curato non può continuare la sua vita di abitudini, “un prete da sagre e nient’altro”, l’impossibilità della vita e la fede ora si scontrano. È un racconto dunque di solitudini e inadeguatezze, da quando la vecchia entra in scena, il passo lento del curato, la sua vita regolare, non ha più senso, la porta si è aperta su questa vita, e ora la solitudine di quel luogo emblematico appare assurda: casa d’altri, in cui si è vissuti da sempre. Quell’esistenza non convince più, tutto comincia a girare in un vortice di smania, mentre il paesaggio rimane eternamente lo stesso.
Il racconto è dotato di una densità narrativa elevatissima, scorre per brevi capitoletti, riesce a coinvolgere il lettore in poche pagine, spesso grazie ai più grandi silenzi letterari, alle assenze; nel concreto, da un punto di vista narrativo, succede poco in queste pagine; e quello che succede tra i personaggi in gran parte viene celato, ma il lettore lo capisce grazie anche ad un tono confidenziale che lo scrittore instaura con i suoi lettori
Ma che altro potevo fare, mi dite?
Era tardi, era freddo, ero ancora per strada: dovevo scendere a casa ecco tutto.
L’ombra proprio ancora non era scesa: campanacci di pecore e capre si sentivano a tratti qua e là un po’ prima della prata dei pascoli. Proprio l’ora, capite, che la tristezza di vivere sembra venir su assieme al buio e non sapete a chi darne la colpa: brutt’ora. […] In mezzo a tutto quel silenzio e quel freddo e a quel livido e a quel immobilità un poco tragica, l’unica cosa viva era lei. Si chinava, e mi pare anche a fatica, affondava gli stracci nell’acqua, li torceva e sbatteva su un sasso: poi li affondava, torceva e sbatteva, e via ancora così. Né lentamente né in fretta, e senza mai alzare la testa.
Il tragico dell’esistenza, il dolore, la disperazione della fatica e l’uomo religioso che non ha risposte. Un microcosmo capace di gettare un potente fascio di luce sul macrocosmo delle nostre certezze quotidiane, abitudini sicure e senza senso. Il racconto ripropone la domanda, spinosa dell’uomo religioso, con grande realismo: unde malum? Può venire una vita così disperata da Dio?
A lettura conclusa, mi sono venuti in mente altri libri che in qualche modo trattano gli stessi temi: uno è il classico La morte di Ivan Il’ic, di Tolstoj. Come Casa d’altri, si muove su questa architettura dell’assenza, la bravura di rendere gli spazi bianchi tra le righe quasi più comunicativi, il talento di valorizzare la reductio e la sottrazione. Ma come non ricordare altri casi di suicidi come ribellione alla fatica della vita, si veda il Valino della Luna e i falò di Cesare Pavese, che prima di uccidersi, brucia la cascia e uccide la moglie e solo il piccolo Cinto, il figlio, si salva dalla morte, paradossalmente qui tutto avviene in un ambito ancora determinato dalla fede, mentre la vecchina di D’arzo vorrebbe essere autorizzata a morire dalla Chiesa, quasi come gesto di carità, soltanto per un caso molto speciale, senza offendere nessuno, rimanendo nella fede, semplice, di Dio, e il curato non sa fare altro che rispondere con un silenzio che è una specie di solidarietà, e continuare a osservarla da lontano ogni giorno, come per verificare se il peggio era ormai diventato troppo gravoso per essere sopportato.
Mai una volta in tre mesi che m’abbia fatto il più piccolo segno o abbia alzato anche solo la testa. Lei c’era ancora; e io dall’argine vedevo che c’era, ed il resto non voleva dir niente. E tutti e due sapevamo benissimo che non ci saremmo parlati mai più, neanche salutati incontrandoci, ma anche questo era meno di niente.
Quando poi la vecchia muore, chi sa come, di malattia o davvero mettendo in atto il suo proposito, il prete rimane svuotato, distrutto, in stretta, confidenza con il lettore, in cerca di quella carità e comprensione che la vecchia, in quel modo paradossale, anche lei, prima di lui, attendeva. Tutto è assurdo nel suo modo tragico di una limpida religiosità nel riproporre questioni eterne.
Allora mi vien sempre di più da pensare ch’è ormai ora di preparare le valigie per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d’avere anche il biglietto.
Tutto questo è piuttosto monotono, no?
È il finale. L’agnizione di una domanda radicale nascosta è riemersa più tragicamente di quanto si potesse pensare.
Solo un miracolo potrebbe salvare.
In un dattiloscritto del racconto, di cui esistono diverse redazioni, D’arzo ha aggiunto a penna:”il mondo non è casa tua; a te sembra di starci a dozzina” e in emiliano significa “starci in prestito”.
Anna Chiara Stellato