Un altro Sanremo è andato. Come si dice, morto un papa se ne fa un altro. Forse non oggi, forse non domani, ma molto presto si inizierà a pensare già a quello successivo. Si vocifera che il comune ligure potrebbe non rinnovare il contratto esclusivo con la Rai e decidere di trasferire il Festival a Sky, ma è un’ipotesi talmente remota che non vale la pena discuterne. Più interessante, invece, il totonomi per la conduzione della prossima edizione, dal momento che Carlo Conti ha dichiarato che non siederà al comando anche l’anno prossimo. E allora, Amadeus? Il ritorno di Fazio, o di Bonolis? Oppure una conduzione al femminile, magari proprio con Maria De Filippi? Chi può dirlo. L’unica domanda a cui possiamo provare a rispondere adesso è che cosa resterà di questo Sanremo. Ancora meglio, che cosa ci ha portato la 67esima edizione del Festival della canzone italiana al di là della musica.
Sanremo è uno specchio, anche se certamente parziale, di quel che accade contemporaneamente nella musica, nella televisione e nel modo che abbiamo di percepire entrambe. Se Sanremo cambia, è perché anche la musica cambia, continuamente. E in tutto questo cambiamento, i più giovani si fanno avanti, e i meno giovani vengono scalzati un tanto alla volta. Senza tornare troppo indietro nel tempo, nel 1986 Eros Ramazzotti aveva solo 23 anni quando vinse contro i veterani Renzo Arbore, Fred Bongusto e Sergio Endrigo. Nel 1995, Giorgia ne aveva 24 quando s’impose su Gianni Morandi, Toto Cutugno e Patty Pravo. In questo rinnovamento perenne, la televisione gioca la sua parte, con i talent show destinati ad un pubblico giovanile e concepiti come serbatoio di nuove leve musicali.
Chi continua, pertanto, a volere a tutti i costi fuori dal Festival i neoarrivati, specie se provenienti dal macrocosmo dei talent, dimostra scarsa comprensione delle dinamiche che governano l’universo musicale, che possono essere sì legate, in questo momento, ad un fenomeno televisivo, ma che procedevano in questo senso ancora prima che nascessero Amici o X-Factor. A che serve arroccarsi nel proprio castello nel tentativo disperato di tenere il mondo fuori, se poi il mondo continua a girare? O, in altre parole, a chi gioverebbe fare un Festival che non rispecchi l’andamento del mercato e respinga i cantanti che potrebbero, in potenza, vendere di più? Tra i vincitori di Sanremo degli ultimi dieci anni, ben sei hanno fatto il loro esordio in un programma televisivo: qualcosa dovrà pur dire. E anche in questo caso, non è nulla che non si sia sempre visto. Ricordate che Michele Zarrillo, Laura Pausini, Mietta, Andrea Bocelli, Mango, Marco Masini, gli stessi Ramazzotti e Giorgia nascono, artisticamente parlando, in un programma televisivo, sebbene di natura diversa, ma pur sempre basato sulle formule della gara e del voto da casa, e quel programma è proprio Sanremo.
Il cambiamento inarrestabile di cui si parlava sopra, semmai, può servire a spiegare perché il primo posto sia stato consegnato a Francesco Gabbani, che ha portato un motivetto – accompagnato dalla giusta dose di ilarità e da una scimmia ballerina – che può piacere più ai ventenni che alle nostre nonne. Non spiega però le eliminazioni, né tantomeno perché alla vigilia del Festival dessero tutti per favorita Fiorella Mannoia, che ha quasi 63 anni e si è piazzata seconda. Gli esperti del mestiere hanno forse dimenticato che soltanto un anno fa la vittoria è andata agli Stadio, e nel 2011 a Roberto Vecchioni. Anziché parlare di rottamazione, avrebbero dovuto dire che il nuovo avanza, ma il vecchio tiene ancora bene.
Andrea Vitale
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