L’ultimo tabù dell’Occidente
Nel 1994 lo scrittore spagnolo Javier Marías, traendo ispirazione da un passo del Riccardo III di William Shakespeare, realizzò il suo ottavo romanzo, intitolato “Domani nella battaglia pensa a me”. La storia prende le mosse da quello che sembrerebbe un banale rendez-vous adulterino, ma che, col trascorrere della serata, si trasforma in un imprevedibile appuntamento con la morte: la donna infatti, colta da improvviso malore, si spegne lentamente tra le braccia dell’amante semisconosciuto nell’intimità del suo appartamento. Un evento paurosamente casuale che coglie impreparato il protagonista e lo condanna per il resto della narrazione a una sorta di «incantamento» che non lo abbandonerà mai del tutto. Il merito di quest’opera risiede nella capacità dell’autore di “costringere” il lettore, così come suggerisce l’esortazione del titolo – nell’originale shakespeariano un anatema lanciato dallo spettro di una madre al malvagio monarca –, a non voltare la faccia alla morte, a non dimenticarla.
Dopotutto oggi la morte costituisce un argomento sconveniente da affrontare, forse l’ultimo argomento rimasto veramente intoccabile dopo quello ormai superato del sesso. Infatti nonostante rappresenti l’evento più naturale e inconfutabile, l’unica cosa di cui siamo veramente sicuri – «incerta omnia, sola mors certa» affermò Sant’Agostino –, le società contemporanee hanno veicolato con ostinazione l’idea che si potesse escludere dall’orizzonte della vita, coltivando l’illusione di poter vivere come se non esistesse: meglio evitare in tutti i modi di parlarne ed estrometterla dalle espressioni culturali più diffuse. Un processo di rimozione coatta che ha spinto il sociologo francese Edgar Morin a definire la nostra una “società amortale”. In effetti le moderne civiltà avanzate, grazie soprattutto al successo del razionalismo illuministico, si sono infarcite di sapere pratico e di nozionismo orientato esclusivamente alla sopravvivenza – o perlomeno al successo – dei singoli individui, ma hanno smarrito la capacità di trasmettere un sistema condiviso di conoscenze ed esperienze utili a confrontarsi con l’eterna “nemica”. Ovviamente non è sempre stato così. Quasi tutte le civiltà antiche avevano accettato la morte come un aspetto essenziale della vita e avevano per questo sviluppato una specifica cultura a riguardo, un loro modo peculiare di affrontare questo mistero. I tibetani, ad esempio, per più di mille anni hanno utilizzato il loro libro sacro, il “Bardo Thodol”, per affrontare il momento del trapasso. Gli antichi Egizi e i Greci avevano perfino incluso la morte nel pantheon delle loro divinità.
Eppure, in tempi non sospetti, Nietzsche nel suo “Così parlò Zarathustra” aveva intravisto con estrema lucidità quella che sarebbe stata l’ossessione e il tabù dell’odierna società occidentale: secondo il filosofo tedesco, scomparsa la «menzogna bimillenaria» tipica dell’era cristiana, durante la quale si era creduto a una storia falsamente progressiva, la fine delle grandiose aspettative e lo spostamento dell’attenzione sulla purtroppo breve esistenza umana avrebbero favorito l’emergere dell’angoscia della morte. L’abolizione dell’avvenire e l’immersione totale nel presente, allora, potrebbero essere visti come tentativi maldestri della società post-moderna di porre una soluzione all’imponente ritirata di Dio dal mondo – che lasciò scoperta una terribile verità, quella di una morte senza scampo non più alleviata dalle antiche costruzioni religiose – i quali tuttavia non hanno ottenuto i risultati sperati. Per di più l’instaurazione a livello planetario della società del consumo, un modo di vivere in cui le innovazioni tecnologiche rendono tutto, con velocità impressionante, immediatamente obsoleto, non ha fatto altro che agevolare l’invasione del nostro orizzonte temporale di un presente sempre più dilatato, al punto tale da rendere l’uomo schiavo dell’utopia di poter cancellare il tempo e sfidare la morte ad un’improbabile partita a scacchi.
La morte solitaria dell’uomo occidentale che non intende più ricevere le sue norme e le sue leggi né dalla natura delle cose né da Dio, ma pretende di fondarle egli stesso a partire dalla sua ragione e dalla sua volontà, ricorda tanto quella descritta da Lev Tolstoj in “La morte di Ivan Il’ič”, racconto di un borghese inguaribilmente individualizzato che non è in grado di collocare l’inaspettato (per lui) fenomeno in un universo simbolico e per il quale la rassicurante razionalità, distintiva della sua classe, non può fornire alcun sollievo. Una morte – considerato anche il superficiale tentativo del suo entourage di voltare le spalle al dramma – senza punti di riferimento, senza sostegno alcuno. D’altronde, mentre ancora agli inizi del Novecento, specie nei villaggi, la collettività si stringeva ritualmente attorno a coloro che avevano subito il lutto, oggi invece tutto si svolge nell’indifferenza generale e chi chiede conforto o condivisione lo fa quasi con pudore, come se subire una perdita fosse una vergogna da nascondere. La stessa vergogna che si prova quando si è malati in questo mondo che esalta la salute, l’efficienza fisica e la gioventù. Tuttavia rifiutare il lutto – questa è almeno l’equazione che pose più di un secolo fa il padre della psicoanalisi Sigmund Freud – vuol dire rifiutare di vivere, in quanto il lutto è una sofferenza necessaria che rende possibile la vita.
Come, allora, sembra suggerire l’ultimo segmento del film di Akira Kurosawa “Sogni” – in cui un anziano centenario mostra ad un uomo metropolitano l’idillio del suo villaggio incontaminato dove quando una persona muore “ci si congratula per la sua buona vita” attraverso colorate cerimonie funebri fatte di danze e canti – la tradizione filosofica orientale potrebbe ancora rammentare all’uomo del XXI secolo il valore di un’antica lezione ormai caduta nell’oblio, e cioè che l’universo intero è governato dall’armonia degli opposti, per cui non può esistere vita senza morte, e non può esistere morte senza vita. I due elementi sono legati in maniera imprescindibile. In fondo oggi ricercare una migliore “qualità della vita” e di conseguenza anche la consapevolezza di un’adeguata “qualità della morte” non può più essere considerato un lusso o un inutile vezzo, ma una necessità di importanza capitale. Una questione, insomma, di vita e di morte.
Valerio Ferrara
Sostanzialmente concordo con l’analisi prospettata, convinto che le prospettive di analisi del fenomeno della rimozione e banalizzazione della morte nell’epoca contemporanea sono molteplici. Brevemente, ad esempio, ricordo che sussiste, ancora fortemente presente, un concetto di vita legato a una concezione di stampo neopositivista, e quindi assai arretrata. La scienza da tempo ci ricorda che la vita non è uno stato, ma una rete precaria di equilibri dinamici, una rete omeodinamica, in cui vige un intreccio continuo di equilibri che restano unitamente ad equilibri che si infrangono. La malattia, in certo senso, è intrinseca alla natura della vita.