Ogni orizzonte della notte, Maurizio Vicedomini. Cosa cerchiamo quando tutto è andato perso

La copertina

Ogni orizzonte della notte. Ha un titolo che sembra un ossimoro la nuova raccolta di racconti di Maurizio Vicedomini, già autore di un romanzo e con svariate esperienze nella narrativa breve alle spalle. Ma questo nuovo lavoro promette di essere fin da subito qualcosa di molto diverso.

Undici racconti, di lunghezza variabile, mettono a punto una visione del mondo che è un modo di sentire, di percepire il mondo – o di provare a percepirlo – e che, ogni volta che una storia finisce e ne comincia un’altra, mentre acquista coerenza e complessità rivela inesorabilmente una fragilità di fondo. Una visione di fatti particolari che si candidano a essere universali, in un mondo che non appartiene solo alla narrazione ma potrebbe essere anche il nostro, di chi oggi vive i suoi venti o trent’anni, e che forse sarà lo stesso anche domani.

Sono racconti figli del proprio tempo, di chi è cresciuto negli anni Novanta e ha accolto i cambiamenti arrivati coi Duemila: ne sono il segno i cellulari come strumento privilegiato di comunicazione, l’help desk per l’assistenza telefonica e lo status di enciclopedia per eccellenza raggiunto da Wikipedia; ma è anche di cultura contemporanea che si tratta, e così qua e là affiorano i riferimenti ai Nirvana, ai film di Bruce Lee, espressioni comuni anche al gergo cinematografico americano e nomi estrapolati dai videogiochi. Cultura pop, quindi, accanto a una cultura spiccatamente umanistica, che si affaccia nel testo sotto forma di Dante o delle figure della mitologia greca e che diventa ancora più preponderante della prima, se è vero che talvolta va al di là della semplice citazione per diventare chiave di lettura e orientare il racconto. Come il mito di Orfeo ed Euridice, che ritorna insistentemente in Nove mentre si avverte sempre più pesantemente l’inevitabilità della morte che ci aspetta tutti, alla fine.

Ognuna di queste storie si articola in segmenti di narrazione che corrispondono a diverse età della vita (bambino, adolescente e un più o meno giovane uomo), o a distanze cronologiche più ravvicinate, o che dividono il punto di vista tra due entità parlanti, prima di ricongiungersi nel finale. Tutte, con la sola eccezione di Ego, in cui si alternano comunque due voci che dialogano con un ideale interlocutore, pur senza frapporre pause e interruzioni grafiche di mezzo, ed è anche il solo caso in cui il narratore si scinda in due soggetti. In tutti gli altri, colui che parla in prima persona – chiamiamolo pure “il protagonista” – è un personaggio sempre diverso, ma che porta con sé qualcosa degli altri “io” che l’hanno preceduto. È un individuo senza nome che vive in piccoli centri di provincia che gli stanno stretti e che, tuttavia, neanche nella grande città riesce a trovare una sistemazione o a instaurare con essa un rapporto sereno. Quest’inquietudine che viaggia con lui di racconto in racconto lo induce a mollare lavori, cambiare case, chiudere con partner e famiglie, spostandosi là dove spera di trovare qualcosa che non sia la propria angoscia. Puntualmente, non riesce a fare a meno della sua ansia di dare a tutto un senso, della necessità innata di trovare a ogni cosa una definizione, di ridurre anche il più inafferrabile dei fenomeni naturali alla propria comprensione. Salvo poi accorgersi che le certezze possono essere ancora più crudeli dei dubbi, e rifugiarsi, allora, in esperienze che rassomigliano all’oltremondano, o cestinare d’un tratto le fotografie nella digitale e rinunciare a vedere. Mettere da parte, infine, anche i simboli a cui ci siamo aggrappati per tutta la vita, per accorgerci quand’è ormai troppo tardi che non avevano nessun significato se non quello che gli abbiamo inutilmente e a lungo attribuito.

Eccola, la notte. Se dovessimo provare a dare un significato a quella notte che è nel titolo, probabilmente lo troveremmo nella sua implicita inibizione della vista. È nel buio della notte che non riusciamo a distinguere, a focalizzare – in senso lato, dunque, a comprendere – e persino a percepire noi stessi («Sono abituato a pensare di essere me stesso. Ma se non lo fossi? Se fossi qualcun altro? Chi può dirlo nel buio?»). E allora, forse non è neanche un caso che il narratore non abbia un nome.

Attorno a lui si avvicendano fantasmi e figure evanescenti con cui l’unico rapporto che si riesce a costruire è basato su una insufficienza di comunicazione: così con amanti taciturne, amici alle cui domande non si sa rispondere, estranei enigmatici. Persino in Ego, le due voci che si danno continuamente il cambio – un lui e una lei – si mettono a nudo in un contesto che ricorda quello della terapia di coppia, ma come se partecipassero ogni volta a sedute separate.

Maurizio Vicedomini (Ph. ©Francesco Paparo)

Indistinta, sfocata è, talora, l’altra metà della coppia, la fidanzata, la moglie, la compagna, l’amata, più spesso affiorante come metà dolente di un intero amaro e penoso. Sempre, comunque – tranne in un caso, anche stavolta – l’interazione amorosa è portatrice di altre incomprensioni, altre incertezze e parole taciute. In Una storia senza importanza è addirittura la narrazione a risentirne, affidando al non detto i particolari di una relazione di cui poco sappiamo circa il passato, e niente riguardo al futuro, immobilizzandola in un eterno e incerto presente. Sono fantasmi a tutti gli effetti, invece, i personaggi che rientrano nella cerchia parentale. Coniugi separati, genitori defunti o allontanati formano un quadro familiare disgregato, sofferente, opaco. Le mura dell’ambiente domestico trattengono memorie sbiadite e affanni soffocati a stento, mentre aleggia un’aria di morte che, anche quando è annusata appena, passa da un racconto all’altro. E la morte, qui, non è tanto il pretesto per abbandonarsi alla tragedia, quanto sinonimo di consunzione, per chi se ne va, ma soprattutto per chi resta, è la consapevolezza di aver perso inesorabilmente anche una parte di sé.

C’è un racconto, verso la fine, Il rinoceronte, che condensa tutto questo in pochissime pagine. Niente vi accade, eppure nient’altro si potrebbe aggiungere sul senso di perdita e di solitudine che si fa universale, trascende persino le specie e le razze, e a quel punto capisci che non conta poi molto se riesci a dare alle cose la giusta definizione.

Andrea Vitale

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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