Il demone della teoria
La teoria ritornerà, come tutte le cose, e se ne riscopriranno i problemi il giorno in cui l’ignoranza sarà giunta al punto che non ne nascerà altro che noia.
Philippe Sollers, Théorie d’ensemble
Philippe Sollers preannunciava questo ritorno fin dal 1980, scrivendo la prefazione alla nuova edizione di Théorie d’ensemble, ambizioso volume pubblicato durante l’autunno del 1968, con un titolo preso in prestito dai matematici, e che raccoglieva le firme di Michel Foucault, Roland Barthes, Jacques Derrida, Julia Kristeva e di tutto il gruppo «Tel Quel». La punta della teoria allora al suo zenit. Una teoria col vento in poppa che alimentava entusiasmi e querelles, che prometteva rivoluzioni copernicane; e che rappresentava essa stessa un codice di interpretazione della realtà. Verso il 1970, infatti, la teoria letteraria era giunta al culmine ed esercitava un’immensa attrattiva sui giovani studiosi e non. Con denominazioni diverse – “nuova critica”, “poetica”, “strutturalismo”, “semiologia”, “narratologia” – era al massimo dello splendore. Una corrente impetuosa trascinava tutti e l’immagine dello studio letterario, sostenuta dalla teoria, era seducente, persuasivo, trionfante. Tra i protagonisti di una tale “età dell’oro”, vi era proprio Tzvetan Todorov, morto recentemente, la cui straordinaria attività di filosofo e saggista, nonché di militante del movimento strutturalista, ha costituito una pietra miliare e un punto di riferimento ineludibile per la formazione di un’intera generazione di studenti. La sua opera testimonia in pieno la rigogliosa fioritura degli studi umanistici del tempo, la fecondità dei nuovi approcci e delle nuove prospettive. Tra i tanti contributi è sufficiente ricordare La letteratura fantastica e quella preziosissima silloge de I formalisti russi. Teoria della letteratura e del metodo critico, sintesi essenziale e pregnante della “scuola” che forse ha più dato, in quanto a strumenti d’analisi e lascito, alla letteratura.
Ma le cose non stanno più esattamente così. Le teoria non si è dileguata, benché numerosi in questi anni siano stati i manifesti apocalittici che ne hanno annunciato – anche provocatoriamente, per il gusto dello scandalo – la morte (e non solo della teoria, ma della critica in senso lato); però si è istituzionalizzata, trasformandosi in metodo. Essa è divenuta una tecnica pedagogica spicciola, arida, spesso, tanto quanto la spiegazione del testo contro la quale allora si scagliava con energia. Innumerevoli, infatti, sono i manuali che amatori, studenti ed esperti consultano voracemente, nella comune illusione di aver trovato un’utile “scorciatoia” per evitare le sue acque “perigliose” e, al contempo, il rischio della sue derive. Vi è infatti un credo comune, inannientabile, specialmente in Italia, storicamente distante da tali questioni: la teoria può sì fornire degli strumenti, ma nella sua essenza è astratta speculazione, pratica gnoseologica dilemmatica che può persino, anche nella concezione di rinomati intellettuali, “deviare gli studenti” (come se le altre attività del pensiero decantate e i filologismi esasperati avessero, invece, statuto di “scienza dura”, e non fossero anch’essi frutto di una visione radicata e di ideologie preconcette, tra cui lo stesso storicismo). In altri termini, essa ha perso quella vis polemica, quell’intenzione di opposizione (critica, nel senso etimologico del termine) al senso comune che è la condicio sine qua non del suo proliferare: ha perso, cioè, se stessa. Cos’è, infatti, la teoria se non reazione piccata contro il dilettantismo e le pratiche che giudica ateoriche o antiteoriche? Essa si contrappone proprio al senso comune (con cui ha un rapporto inevitabilmente conflittuale): è critica della critica, impulso reazionario. Noti i suoi interrogativi, spesso senza risposta:
- Che cos’è la letteratura? Cos’è quel fantomatico «x artistico», come lo definì Federico De Roberto nella sua prefazione a Documenti umani, che permette all’arte di essere tale?
- Che rapporto c’è tra la letteratura e l’autore?
- Che rapporto c’è tra la letteratura e la realtà?
- Che rapporto c’è tra la letteratura e il lettore?
- Che rapporto c’è tra la letteratura e la lingua?
Tutti le correnti, seppur con differenti approcci e obiettivi, hanno tentato di fornire delle risposte a simili quesiti, che non potranno mai essere definitivamente risolti fino a quando si continuerà a studiare la letteratura e leggere criticamente: l’affermazione di morte è, dunque, un nonsense, un’antinomia per definizione. Ed è questo il motivo per cui ogni sintesi manualistica (in senso classico) delle correnti del pensiero critico risulta, forse, stucchevole, poiché smarrisce la ragion d’essere e la causa prima della disciplina che è curiosità, voglia di contraddizione, polemica:
La teoria non è metodo, tecnica, cucina. Al contrario, lo scopo è indursi a diffidare di qualunque ricetta, disfarsene tramite la riflessione. Non ho quindi assolutamente l’intenzione di facilitare le cose, ma di rendere vigili, sospettosi, scettici, in una parola sola, ma che valle per mille: critici o ironici. La teoria è una scuola di ironia.
Antoine Compagnon, Il demone della teoria
Giustissime le riflessioni di Compagnon contenute nel magistrale Il demone della teoria, cui il mio intervento, non solo nel titolo, è fortemente debitore. Perché la teoria è davvero come un Demone per ogni intellettuale militante. Non, però, un «demone proibitorio» socratico; ma un «Demone affermativo, agente, di battaglia», come quello di Baudelaire (come egli scrive in Accoppiamo i poveri). Mi preme, a tal proposito, riportare un frammento della prefazione di Compagnon, tanto suggestivo quanto pregnante per il tentativo di definizione dell’oggetto d’analisi:
Ma dov’è il demone della teoria? E’ all’interno della teoria, come il verme nella mela? O è Lei che la demonizza? Delle due cose l’una, o la teoria è spinta dal suo demone e Lei gioca a fare l’esorcista, vuole scacciare il diavolo dalla teoria, o è il demone è Lei e tenta la teoria, la spinge al crimine. E qual è il senso comune al quale fa riferimento? Se esiste un demone della teoria, non è forse vero che il bene e il vero sono dalla parte del senso comune? Esporre il demone della teoria non vuol dire forse fare l’elogio del senso comune? […] La teoria e il senso comune si battono per la letteratura, per la sua anima. Tra le due, lei non propone forse un giusto mezzo? Una teoria sensata? Un senso comune imbottito di teoria?
Se, dunque, la teoria è come un demone, sarà, in ogni tempo o generazione, impossibile liberarsene del tutto: esso sopravviverà sempre, come logica manifestazione del pensiero intellettuale e iscritto nel sistema delle sue possibilità. Albergherà sempre nei nostri cuori pronto ad insorgere e ad impossessarsi di noi, di “sopraffarci” nei momenti di debolezza, di insinuare dei dubbi che daranno adito alla speculazione e all’opposizione allo status quo. Il suo idioma è la provocazione, il suo desiderio è la beffa del “nemico” e delle sua false certezze; e la scoperta delle invarianti universali del linguaggio letterario il suo ideale.
Non mi resta, dunque, che confutare il punto più spinoso, quello della sua presunta inutilità. Pregiudizio così radicato che spesso si serve delle (sensate) obiezioni mosse ad ogni modello dottrinale, inevitabilmente tacciato di arbitrarietà o di autoreferenzialità dagli scettici, o demolito dai successori in cerca di “un padre da uccidere”: raramente la teoria crea filiazioni, e l’accostamento di modelli – e metodi – eterogenei è cosa molto più ardua di quanto comunemente si sia portati a pensare. Ciò perché se le conclusioni sembrano simili, talvolta sono completamente diversi i presupposti. Inoltre, è chiaramente più facile distruggere che costruire: ogni sistema presuppone un’ambizione smisurata – quella dell’onnicomprensività – destinata al fallimento, perché vi saranno sempre, inesorabilmente, controversie e punti ciechi. Tuttavia innumerevoli, altresì, sono i pregi di ciascun sistema (adatto ognuno per differenti esigenze), che, però, si finge (?) sovente di dimenticare. A tal riguardo, un esempio può essere proprio la narratologia del “discorso” (campo che personalmente più mi sono trovato ad approfondire nei miei studi e su cui posso fare qualche esempio più concreto), che è spesso oggetto di sovrapposizioni ideologiche fuorvianti, nonché, e non di rado, di risolini di scherno dell’élite accademica italiana. Essa è stata spesso vista come una griglia castrante e autoimposta in cui deliberatamente costringersi; come una tassonomia di definizioni che avrebbero l’effetto di svilire la creatività dell’artista tentando di definire scientificamente il suo operare tramite formule tanto vuote quanto pretenziose. Nulla di più insensato, ovviamente, per chi tali questioni con quotidianità le approfondisce e le affronta tramite la lettura diretta di quei classici, spesso in Italia neanche tradotti perché considerati inutili, che invece mostrano versatilità, elasticità di approccio e godibilità notevole. Sono le sintesi, semmai, a falsificarne la percezione e a banalizzarne le posizioni. A mo’ di paradigma, riporto un’immagine a che a primo impatto scandalizzerà molti, anche perché ignota ai più :
Cosa sarà mai questo mirifico rosone fatto di assi, archi, cerchi, raggi e proiezioni? Un aborto della ragione, un delirio allucinatorio? Un inno nostalgico alla trigonometria? Forse come tale è stato percepito, dato che A Theory of narrative dello studioso di poetica e anglista Stanzel – uno dei libri più belli che mi sia mai capitato di leggere nella vita, tanto profondo quanto ben ponderato, oltre che dall’onestà intellettuale ed equilibrio critico ammirevole – in Italia non è stato mai nemmeno tradotto. Autentico assassinio culturale su cui è anche superfluo mettere l’accento. Capita, tuttavia, di trovar riportato in qualche saggio, spesso tendenziosamente e in modo sibillino, il suo famoso cerchio tipologico (typenkresis) delle forme narrative, a mo’ di emblema della deriva stessa della narratologia, che per molti avrebbe esaurita la sua vena creativa già col Discorso del racconto (libro che, a sua volta, è stato oggetto delle terribili riduzioni manualistiche che ne hanno falsificato completamente le posizioni, o addirittura omesso alcune parti, come il paragrafo imprescindibile delle Alterazioni). Dunque, cos’è questo cerchio tipologico e perché mi preme menzionarlo in tale contesto ?
Il modello Stanzel, in effetti, si impernia su due presupposti fondamentali. In primo luogo, il fatto che la natura narrativa di un testo sia determinata dalla presenza di una figura che ne media i contenuti (sia un narratore, teller-character, o in casi estremi un personaggio riflettore, reflector-character: formulazioni che grossomodo risalgono a Platone); e poi la convinzione che qualsiasi romanzo o racconto intrattenga con il il sistema dei generi un rapporto di tipo organico, circolare. Su quest’ultimo punto è soprattutto a Goethe che Stanzel si rifà, in particolare all’idea per cui i testi poetici siano riconducibili a una fra le tre «forme naturali»: l’epos (Epos), dove si «narra con chiarezza», la lirica (Lyrik) «stimolata dall’entusiasmo», e il dramma (Drama), in cui si «mette in azione dei personaggi». Molto in sintesi, è da un orizzonte di questo genere che Stanzel parte, ipotizzando come lo studio di qualsiasi testo di finzione non possa essere disgiunto dall’analisi dei modi in cui un atto di mediazione vi agisce. Proprio in ragione di tale processo è anzi possibile distinguere le varie tipologie romanzesche, o al limite metterle in rapporto, compararle in modo sistematico. Del resto, è appunto di tipologie – meglio, di situazioni narrative (tre le principali: quella autoriale, la narrazione in prima persona e la situazione narrativa figurale, dove un personaggio media tutti i fatti narrati) – che Stanzel discute. Tre, ancora, sono i parametri in base ai quali collocare le opere narrative lungo il continuum del cerchio e che si intersecano al suo interno formando le varie zone: la persona (prima o terza, cioè se il narratore appartiene al dominio dei personaggi della storia o meno), la prospettiva con cui sono osservati i fatti (interna o esterna), e il modo (l’asse del teller-character e reflector-character).
Quali i pregi del modello? La versatilità, come già detto, perché Stanzel precisa che le variazioni strutturali all’interno di ogni singolo romanzo non sono da considerarsi negativamente o come eccezioni che ne minano la qualità, ma come un arricchimento stesso della singola opera, che scienza non è e che, anzi, è quasi sempre riluttante per definizione all’essere coerente a una tipologia lungo tutta la sua estensione; in secondo luogo per un possibile utilizzo del modello in un’ottica diacronica al fine di comprendere le invarianti universali del medium finzionale. Paolo Giovannetti nel suo Spettatori del romanzo (cui indirizzo chiunque si sia interessato all’argomento) vi ha correttamente messo l’accento, notando come la disposizione delle singole opere (affini in quanto a realizzazione) lungo determinate zone della circonferenza sia progressiva e come, seguendone il continuum, sia possibile individuare, oltre a una tipologia metastorica del racconto, una sua storia tramite il graduale riempimento del cerchio, comprendere le sue evoluzioni, nonché apprendere cosa non sia ancora stato realizzato o ciò che, forse, semplicemente non sia possibile fare nella narrativa.
Senza soffermarsi oltre sull’esposizione di un sistema, che, probabilmente, così sintetizzato risulta ugualmente oscuro, ma che invece, se studiato con serenità dimostra di essere mirabile e di semplice utilizzo, intendo condividere la mia esperienza: studiando Stanzel e la sua categorizzazione, mi è stato possibile indirettamente comprendere cosa sia davvero un racconto, quali le sue possibilità; seguendo le sue speculazioni, e non solo le sue, ho cambiato per sempre il mio approccio alla lettura dei testi con un’infinità di strumenti che, invece di svilire l’attività creativa dello scrittore, mi hanno permesso, semmai, di coglierne le particolarità più minute. Perché il pregio migliore dell’approccio teorico è, probabilmente, quello di restituire una “dimensione artigianale” della scrittura al lettore, di fargli cogliere quelle «molle» e quei «congegni meccanici» su cui si basa ogni forma artistica, la cui individuazione, lungi dal risultare un «esercizio deprimente», come sosteneva Stevenson, è invece ricchezza, possibilità di interpretazione e, anche, di ispirazione, come affermava, invece, l’autore e teorico Henry James.
E’ leggendo Stanzel, Genette, Cohn, Banfield, Bachtin, Todorov, Barthes ecc., infine, che si potrebbe addirittura concepire un’idea innovativa di romanzo, probabilmente impensabile senza il viaggio intellettuale intrapreso nei meandri favolosi della teoria, nei suoi entusiasmi e nei suoi dilemmi irrisolti. Fare della teoria significa interrogarsi sul senso del mondo, sulla validità di dogmi e schemi concettuali del senso comune su cui sarà sempre lecito – e salutare – discutere. Potranno cambiare gli oggetti d’analisi (poemi e liriche, racconti e romanzi, serie tv e cinema ecc.), ma essa sopravviverà sempre, malgrado gli snobismi e i vaticini di morte, i disfattismi e le mode, come forma peculiare ed espressione naturale del pensiero umano.
P. s. Onde fugare ogni dubbio o possibile fraintendimento, è necessario precisare che l’articolo non è affatto – o, quantomeno, non lo era nelle intenzioni di chi l’ha ideato – una requisitoria contro il mondo accademico e le sue tendenze evolutive, ma semplicemente un’ entusiasta – e ingenua – apologia di un universo fascinoso, enigmatico e in gran parte sconosciuto; un mondo tanto avvincente per gli esperti quanto frequentemente tacciato di esoterismo dal grande pubblico. Un inno entusiastico alla teoria, dunque, che ha avuto come fine ultimo l’intento di comunicare e trasmettere, almeno in parte, la passione dell’autore per tale campo del sapere. Visto in quest’ottica, forse, il lettore potrà (riuscire a) sorvolare sulle banalità e le carenze dell’argomentazione del testo.
Guido Scaravilli