Neanche una ruga: i 60 anni della Cantatrice Calva al Théâtre de la Huchette
Ricordati. Eri una liceale. Un secolo fa, e comunque il secolo scorso. Ti ricordi?
Il manuale di letteratura francese dice che a Parigi, nel cuore del Quartiere Latino, c’è un piccolo teatro dove tutte le sere, ininterrottamente, dal 16 febbraio del 1957 viene rappresentata La cantatrice calva di Eugène Ionesco. L’aneddoto mi sembra affascinante. Anni dopo farò la coda davanti allo sportello della minuscola biglietteria per assistere allo spettacolo una prima volta, poi lo farò un’altra volta, e un’altra ancora. La vietta è sporca, piena di ristoranti per turisti (meglio non entrarci, per intendersi), il quartiere è attraversato da colorate e rumorose frotte di studenti in gita e la sala sembra un garage più che un teatro. Ma è una meraviglia. Si è conquistati dalla bellezza del testo, dalla bravura degli attori e dall’ambiente che si crea fra queste quattro mura, fra le poche file di poltroncine occupate da parigini e da molti stranieri.
Il Théâtre de la Huchette ha, dunque, da poco festeggiato i 60 anni della Cantatrice calva e celebra la ricorrenza con un ricco programma che si estende su diversi mesi, fino a quest’estate. È l’occasione perfetta per riparlare di questa pièce, del suo autore e del movimento teatrale in cui si iscrive.
Come spesso accade, gli esordi non sono facili e non fanno per nulla presagire il successo meritatissimo e duraturo che seguirà. Ionesco inizia a scrivere le prime scene prendendo spunto dal corso Assimil con cui sta cercando di imparare l’inglese: le frasi fatte, banali, un susseguirsi di parole praticamente prive di senso usate allo scopo dell’apprendimento della sintassi e del lessico della lingua straniera gli danno l’input per la scrittura dei dialoghi. La pièce viene rifiutata da diversi teatri poi viene rappresentata per la prima volta nel 1950 ma è tutt’altro che un successo. Poi, come detto, sarà al Théâtre de la Huchette dal 16 febbraio 1957, e sarà tutta un’altra storia.
I personaggi sono sei. Due coppie, gli Smith e i Martin, la cameriera e un pompiere. Attraverso la desolante banalità del quotidiano messo in scena in un interno borghese inglese, Ionesco rappresenta, in realtà, le questioni più profonde dell’esistenza umana. Questi personaggi che si esprimono in dialoghi convenzionali, vuoti, che parlano per non dire nulla, che dicono una cosa e fanno il contrario, che si ripetono, che si contraddicono, che cambiano umore da un momento all’altro, che cercano di dimostrare che quando il campanello suona vuol dire che non c’è nessuno alla porta (perché l’esperienza gliel’ha provato), questi personaggi che strappano al pubblico molte risate sono in realtà la rappresentazione drammatica dell’incomunicabilità, della solitudine assoluta, dell’impossibilità di conoscere l’altro, del nonsenso della vita e dell’assurdità della condizione umana. L’assurdità, appunto. Questa pièce si inserisce in quello stile teatrale che si definisce teatro dell’assurdo, di cui Ionesco è uno dei più brillanti rappresentanti.
Il teatro dell’assurdo si caratterizza proprio per l’abbandono delle strutture drammaturgiche tradizionali e del linguaggio logico. Non è un caso che Ionesco definisca la sua Cantatrice calva un’anti-pièce. Tuttavia, e l’abbiamo detto, questo non significa affatto che sia un teatro senza senso. Al contrario. Tutto il senso sta tra le righe, e in controluce. Tutto sta in un simbolismo onnipresente. Il che lo rende estremamante poetico e tragico.
Qui manca praticamente del tutto l’azione intesa come si intende nel teatro tradizionale, e tutto si riduce alla parola, ma anche la parola è svuotata. Il senso, infatti, qui non è veicolato dal significato delle parole, ma dal fatto che le parole non riescano a creare un contatto, ad aderire alla realtà, a far uscire l’individuo dal suo isolamento, dal fatto, banalmente, che le parole non sappiano svolgere la loro funzione comunicativa.
Così, all’inizio della rappresentazione, vediamo gli Smith impegnati in una conversazione dalla banalità sconfortante, il marito non ascolta sua moglie, si annoiano.
Poi arrivano i Martin che inscenano un dialogo in cui dapprima credono di non conoscersi poi una serie di coincidenze (come il fatto di vivere nella stessa casa) li porta a concludere che sono marito e moglie, con la felicità che deriva da questo ritrovarsi. L’effetto comico è garantito, il pubblico ride, ma è un riso amaro poiché l’idea sconsolante di non poter conoscere e di non poter essere conosciuti veramente neanche da chi ci sta più vicino si deposita nella coscienza degli spettatori che sappiano vedere oltre la superficie.
Lo stesso vale per la scena in cui gli Smith parlano di una famiglia di loro conoscenti che si chiamano tutti Bobby Watson, indistintamente, uomini e donne. Il dialogo e la confusione che si crea sono esilaranti, ma di nuovo nulla di divertente nell’idea che si sia tutti condannati allo stesso assurdo destino e tutti privi di individualità.
Tra l’altro questo concetto viene portato al parossismo nella scena finale, in cui si ripete la scena d’apertura, ma questa volta sono i Martin che recitano il dialogo che all’inizio era stato recitato dagli Smith: intercambiabilità dei personaggi (e delle persone).
Tutto è contraddizione tra gli obblighi delle convenzioni sociali, e i sentimenti autentici e gli istinti.
Le ore sono scandite da una pendola incoerente e illogica come tutto il resto, visto che rintocca senza seguire una progressione. Assurdità del trascorrere del tempo.
Ah, ovviamente, ça va sans dire, la cantatrice calva «si pettina sempre allo stesso modo».
Un capolavoro, uno di quei testi che non si dimenticano mai. Perché se è vero che il teatro dell’assurdo nasce in un contesto storico particolare ed è in qualche modo legato all’assurdità degli eventi storici recenti in quel momento (Guerra mondiale, bomba atomica), è anche, e soprattutto, vero che affronta temi esistenziali universali. La cantatrice calva: tanti anni e neanche una ruga.
Manuela Corigliano