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“Taxi Teheran”: quando il cinema sfida la censura

Taxi Teheran” è un film del 2015 fotografato, montato, musicato prodotto, scritto, diretto ed interpretato dal regista iraniano Jafar Panahi, vincitore dell’Orso d’oro come miglior film al Festival Internazionale del cinema di Berlino. Le vicende si svolgono interamente all’interno di un taxi che lo stesso Panahi conduce per le strade della capitale, in balìa dei passeggeri che si susseguono e si confidano con lui.

L’idea di realizzare un film all’interno di un taxi nasce da una ben specifica esigenza, ovvero quella di aggirare la sentenza del Tribunale di Teheran che nel 2010 aveva imposto al regista il divieto per vent’anni di «dirigere film di ogni tipo, di scrivere sceneggiature, di concedere interviste alla stampa nazionale ed internazionale» nonché il divieto di «recarsi all’estero se non per motivi di salute o di pellegrinaggio alla Mecca dietro una cauzione da stabilire», unitamente ad una condanna a cinque anni di reclusione per aver fatto parte di un’«organizzazione illegale allo scopo di sovvertire lo Stato» e ad un altro anno per «attività di propaganda lesive dell’immagine della Repubblica Islamica», della quale ha scontato ottantasei giorni nel carcere di Evin. Dopotutto l’autore di pellicole di denuncia come “Il cerchio” – vincitore nel 2000 del Leone d’oro a Venezia – era già stato arrestato nel 2009 mentre prendeva parte alla commemorazione di una giovane donna uccisa durante le manifestazioni seguite alle contestate elezioni di giugno, quando ormai era diventato uno degli artisti più osteggiati dal presidente Ahmadinejad e le sue pellicole erano state bandite da tutte le sale cinematografiche del paese.

Taxi Teheran” è il terzo lungometraggio – dopo “This is not a film” (2012) e “Closed Curtain” (2013) – realizzato da Panahi in clandestinità, ma il primo ad essere girato al di fuori delle mura del suo appartamento dal 2010. Il regista, per assecondare l’idea di girare un film completamente in esterni, pur dovendo sottostare alle costrizioni imposte dal governo, ha utilizzato delle blackmagic, videocamere ad alta definizione e di ridotte dimensioni che ha nascosto all’interno di alcune scatole di fazzoletti per non attirare l’attenzione. Come in “Dieci” del connazionale Kiarostami, il protagonista ascolta i passeggeri che si alternano e a volte si incrociano – a Teheran il taxi è un’istituzione collettiva – nel suo «vecchio carrozzone», divenendo spettatore, proprio come noi, di uno spettacolo teatrale in movimento che mette in scena le contraddizioni della società iraniana. Per far interpretare i suoi personaggi, Panahi ha scelto attori non professionisti – i cui nomi sono stati omessi dai titoli di coda – dando vita ad un esperimento di tardo-neorealismo che rimescola continuamente le carte e instilla fino alla fine il dubbio che ciò che si sta svolgendo sotto i nostri occhi non sia pura finzione ma fedele documentazione del reale. Tra i passeggeri che si avvicendano in questo singolare road movie ci sono un’insegnate di scuola materna e un arrogante borseggiatore, un nano venditore di dvd pirata, una giovane donna con il marito in fin di vita, due anziane sorelle che trasportano una vasca di pesci rossi, un’amica sospesa dall’ordine degli avvocati, oltre alla nipotina e un vecchio vicino di casa conosciuto in prigione.

La condivisione del viaggio diventa così un’occasione per discutere di pena di morte, diritti delle donne, disuguaglianze sociali e libertà di espressione. Ma anche e soprattutto un’occasione per parlare di cinema. Non mancano, infatti, le citazioni di note pellicole e serie tv americane o di registi di film d’autore quali Kurosawa e Kim Ki-duk, così come i rimandi ai lavori precedenti di Panahi, perché in fondo, come Jafar suggerisce ad un giovane cinefilo, «i film andrebbero visti tutti, dopodiché è solo una questione di gusti». Non mancano neppure le riflessioni attorno al tema della censura e delle regole da seguire per rendere “distribuibile” un film, insegnate dal regime alla nipotina e con cui Panahi ha dovuto spesso fare i conti: nessun contatto tra uomo e donna, nessun personaggio negativo con la barba ma soltanto con la giacca e la cravatta come ogni rispettabile occidentale, assenza di quel «sordido realismo» che minerebbe le basi di una comunità retta dalla legge islamica.

Il film è arrivato segretamente a Berlino su dispositivo USB e, se l’Iran non l’ha potuto vedere, ad oggi è stato venduto in oltre trenta paesi. Alla kermesse il premio è stato ritirato dalla nipotina che, salita sul palco, ha alzato la statuetta per lo zio ed è scoppiata in lacrime, commuovendo l’intera platea. Ad accompagnare il film, una bellissima lettera che Panahi ha invitato alla giuria e nella quale affermava:

Sono un cineasta. Non posso fare altro che realizzare dei film. Il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film e quando mi ritrovo con le spalle al muro, malgrado tutte le costrizioni, l’esigenza di creare si manifesta in modo ancora più pressante. Il cinema in quanto arte è la cosa che più mi interessa. Per questo motivo devo continuare a filmare, a prescindere dalle circostanze, per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo.

In fondo “Taxi Teheran” non è altro che una dichiarazione d’amore per il cinema. Un cinema che si fa militante, ma di una militanza pacifica ed ironica, che non mira a distruggere o si illude di generare brusche fratture, ma che semplicemente si limita ad evadere da un’opprimente prigionia documentando una realtà che, per quanto possa apparire ad alcuni sordida e disdicevole, reca in sé i germi di un cambiamento che sembra inevitabile. Il film di Jafar Panahi testimonia come le restrizioni per un artista talvolta possano tramutarsi in opportunità e il suo poetico realismo appare oggi come un potente antidoto contro la diffusa rassegnazione alla violenza e all’oppressione. D’altronde, come dichiara l’avvocatessa in una delle sequenze finali, dopo aver offerto una rosa alla camera, «sulla gente del cinema si può sempre contare».

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

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