L’idea di realizzare un film all’interno di un taxi nasce da una ben specifica esigenza, ovvero quella di aggirare la sentenza del Tribunale di Teheran che nel 2010 aveva imposto al regista il divieto per vent’anni di «dirigere film di ogni tipo, di scrivere sceneggiature, di concedere interviste alla stampa nazionale ed internazionale» nonché il divieto di «recarsi all’estero se non per motivi di salute o di pellegrinaggio alla Mecca dietro una cauzione da stabilire», unitamente ad una condanna a cinque anni di reclusione per aver fatto parte di un’«organizzazione illegale allo scopo di sovvertire lo Stato» e ad un altro anno per «attività di propaganda lesive dell’immagine della Repubblica Islamica», della quale ha scontato ottantasei giorni nel carcere di Evin. Dopotutto l’autore di pellicole di denuncia come “Il cerchio” – vincitore nel 2000 del Leone d’oro a Venezia – era già stato arrestato nel 2009 mentre prendeva parte alla commemorazione di una giovane donna uccisa durante le manifestazioni seguite alle contestate elezioni di giugno, quando ormai era diventato uno degli artisti più osteggiati dal presidente Ahmadinejad e le sue pellicole erano state bandite da tutte le sale cinematografiche del paese.
La condivisione del viaggio diventa così un’occasione per discutere di pena di morte, diritti delle donne, disuguaglianze sociali e libertà di espressione. Ma anche e soprattutto un’occasione per parlare di cinema. Non mancano, infatti, le citazioni di note pellicole e serie tv americane o di registi di film d’autore quali Kurosawa e Kim Ki-duk, così come i rimandi ai lavori precedenti di Panahi, perché in fondo, come Jafar suggerisce ad un giovane cinefilo, «i film andrebbero visti tutti, dopodiché è solo una questione di gusti». Non mancano neppure le riflessioni attorno al tema della censura e delle regole da seguire per rendere “distribuibile” un film, insegnate dal regime alla nipotina e con cui Panahi ha dovuto spesso fare i conti: nessun contatto tra uomo e donna, nessun personaggio negativo con la barba ma soltanto con la giacca e la cravatta come ogni rispettabile occidentale, assenza di quel «sordido realismo» che minerebbe le basi di una comunità retta dalla legge islamica.
Sono un cineasta. Non posso fare altro che realizzare dei film. Il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film e quando mi ritrovo con le spalle al muro, malgrado tutte le costrizioni, l’esigenza di creare si manifesta in modo ancora più pressante. Il cinema in quanto arte è la cosa che più mi interessa. Per questo motivo devo continuare a filmare, a prescindere dalle circostanze, per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo.
In fondo “Taxi Teheran” non è altro che una dichiarazione d’amore per il cinema. Un cinema che si fa militante, ma di una militanza pacifica ed ironica, che non mira a distruggere o si illude di generare brusche fratture, ma che semplicemente si limita ad evadere da un’opprimente prigionia documentando una realtà che, per quanto possa apparire ad alcuni sordida e disdicevole, reca in sé i germi di un cambiamento che sembra inevitabile. Il film di Jafar Panahi testimonia come le restrizioni per un artista talvolta possano tramutarsi in opportunità e il suo poetico realismo appare oggi come un potente antidoto contro la diffusa rassegnazione alla violenza e all’oppressione. D’altronde, come dichiara l’avvocatessa in una delle sequenze finali, dopo aver offerto una rosa alla camera, «sulla gente del cinema si può sempre contare».
Valerio Ferrara
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