Il petroliere, Paul Thomas Anderson. Ascesa del capitalismo americano.

paulthomasanderson_jpg_750x400_crop_q85Che l’avidità di lucro e la ricerca di un guadagno pecuniario quanto più alto possibile non avesse in sé per sé nulla a che fare con il capitalismo, ma fosse in realtà una tendenza connaturata all’essere umano lo aveva evidenziato bene Max Weber poco più di un secolo fa. Per il sociologo tedesco il capitalismo si identificherebbe addirittura con l’inibizione di un impulso irrazionale, o almeno con la sua attenuazione razionale. E se in questo senso il capitalismo è impensabile senza un’organizzazione burocratica in grado di sottomettere i processi produttivi e distributivi, allo stesso tempo esso non può essere assolutamente pensato senza il fondamentale contributo della religione, la quale ha sempre veicolato specifiche visioni del mondo nelle quali collocare l’individuo. Con la pellicola culto del 2007, “Il petroliere”, che mette a confronto evangelismo e capitalismo nell’ascesa della superpotenza americana nel mondo, l’erede designato di Robert Altman – a cui il film è dedicato – Paul Thomas Anderson, sembra avere assimilato questa lezione.

220px-oil21_28upton_sinclair_novel_-_cover_art29Il film è liberamente tratto dal romanzo del 1927 “Oil!” di Upton Sinclair, scrittore socialista che agli inizi del XX secolo aveva intrapreso, insieme ad altri colleghi appartenenti alla cosiddetta «generazione perduta», la strada della denuncia sociale. Dopotutto erano gli anni, quelli a cavallo dei Trenta, in cui numerosi intellettuali vedevano nel socialismo una speranza di salvezza per la società industriale americana ed anche il cinema, da Charlie Chaplin a Frank Capra, iniziava a denunciare le contraddizioni e gli assurdi ritmi di lavoro dello sfrenato capitalismo statunitense. Il romanzo è vagamente ispirato alla storia del magnate del greggio Edward Doheny, prototipo del self-made man che, grazie ad alcune conoscenze minerarie e all’utilizzo di mappe sulle riserve petrolifere, riuscì a fondare nel 1916 in California il cartello della Pan American Petroleum and Transport Company, quando ormai il capitalismo si avviava alla sua fase suprema, quella che Lenin chiamò dell’«imperialismo», ovvero delle grandi imprese monopolistiche in combutta con l’oligarchia finanziaria. Tuttavia Anderson ha affievolito le tonalità politiche del romanzo di Sinclair, sfrondandolo di tutta la parte relativa allo scandalo Harding e all’umanitarismo socialista a favore dei lavoratori, attingendo soltanto alle prime 150 pagine. Pur essendo ben leggibili le allusioni all’allora presidente George W. Bush, il regista ha preferito concentrarsi sulla figura dello spietato petroliere Daniel Plainview, interpretato da un magistrale Daniel Day-Lewis – interpretazione che gli è valsa tre prestigiosi riconoscimenti: Oscar, Golden globe e British Academy Film Award come «Migliore attore protagonista» – accompagnando le sue gesta in un percorso interiore fatto di rabbia, solitudine e autodistruzione.

il-petroliere-wf-visore-77411_bigGirato interamente in CinemaScope, un sistema di ripresa basato su lenti anamorfiche che consente di ottenere fotogrammi a largo campo visivo, la pellicola evoca scenari di frontiera di una bellezza arida, avvalendosi peraltro di un’eccellente fotografia – premiata anch’essa con la statuetta dall’Academy. I primi 15 minuti di proiezione mettono subito in chiaro che cosa accadrà nei restanti 158 della durata del film: in una carrellata fatta di paesaggi brulli e poetici silenzi, degna di un western di Sergio Leone, la camera segue i movimenti verticali di corpi impolverati, immersi nella melma e nel bitume, impegnati nell’affannoso tentativo di eviscerare dalle profondità della terra l’oro nero. Non una parola, non una soluzione ammiccante, non una spiegazione. Soltanto pietre, muscoli, e sangue. Perché scorrerà anche del sangue: “There will be blood” è il vaticinio contenuto nel titolo originale. Il tutto impreziosito da una soundtrack perturbante e ronzante come un’ossessione, realizzata e orchestrata da Jonny Greenwood – già chitarrista dei Radiohead –  che gli è valsa l’Orso d’argento al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.

Il protagonista sarà al centro della scena per tutta la durata del film, pedinato dal regista e immortalato da ogni angolatura, quasi come se una lente d’ingrandimento si fosse posata sulla sua vita. Dopotutto l’eterno enfant prodige di Hollywood ha sempre cercato col suo cinema di scrutare il lato oscuro della psiche dell’uomo con l’obiettivo di comprendere i motivi dei suoi comportamenti, molto spesso ricapitolati in un sentimento di profonda solitudine. Soli erano i protagonisti di Magnolia nel disperato tentativo di sfuggire alle piaghe da essi stessi inferte. Solo era il pornodivo Dirk Diggler e gli altri personaggi gravitanti attorno al luccicante mondo del cinema a luci rosse di Boogie Nights. E solo è Daniel Plainview, assediato dai suoi stessi fantasmi, incapace di trovare tregua al dolore che lo dilania e lo allontana da qualsiasi forma di affetto. In un dialogo con il falso fratello confessa:there-will-be-blood-8

Io sento la competizione in me, io non voglio che altri riescano. Odio la maggior parte della gente. Alcune volte io guardo le persone e non ci trovo niente di attraente. Voglio guadagnare così tanto da poter stare lontano da tutti.

Evidenti sono i rimandi al film muto di Erich von Stroheim, Greed – Rapacità (1924), così come non mancano parallelismi con l’ostinato capitano Achab di Moby Dick o con il magnate della stampa Charles Foster Kane di Quarto potere, un uomo ugualmente incapace di amare che trascorre, proprio come Plainview, gli ultimi anni della sua vita nell’isolamento di una gigantesca dimora. L’altro volto, però, dell’America è rappresentato dalla religione cattolica, incarnata dal giovane predicatore della “Chiesa della Terza Rivelazione”, Eli Sunday (un ispiratissimo Paul Dano). Sia lui che Plainview sono la personificazione del capitalismo ed entrambi sono chiaramente figli dell’etica protestante, che sfruttano per raggiungere i loro scopi. La stessa etica protestante che Weber aveva individuato come tipica di quelle comunità nelle quali lo «spirito del capitalismo» affonda le proprie radici e che avevano veicolato l’idea che il profitto fosse l’indicatore della grazia divina. there_will_be_blood_churchLa loro non è una lotta tra opposti, bensì una sfida all’ultimo sangue tra uomini simili, accomunati dalla medesima fame di denaro e ambizione di potere che fagocita le loro anime. Entrambi, a loro modo, sono predicatori: Plainview promette alla comunità il benessere materiale («avrete tanto grano da non poterlo utilizzare tutto e il pane vi uscirà dalle orecchie»), Eli la salvezza divina.

Sullo sfondo la collettività si eclissa in un ruolo minore, passivo di fronte al predominio di pochi. Nemmeno il dramma del piccolo H.W, il figlio adottivo divenuto sordo in seguito ad un incidente, riesce a scalfire in Daniel la ferocia individualista da animale predatore che divora tutto – anche se stesso – la quale non finirà finché non avrà rimosso tutti gli ostacoli ed eliminato tutti i nemici. «I’m finished», ho finito. È questa la frase che il protagonista pronuncia prima di mandare a nero lo schermo in quel palcoscenico tutto americano che è la pista da bowling della sua magione, dove ha appena assassinato Eli Sunday. Probabilmente è soltanto un baratro di annichilimento quello che ha realizzato di aver terminato Daniel Plainview, ormai ridotto ad un essere subumano, simile nella postura e nella mimica al Nosferatu di Friederich Wilhelm Murnau.there-will-be-blood-24

Perché in fondo “Il petroliere” è un film dell’orrore. L’orrore della voracità, l’orrore dell’America di ieri, ma anche e soprattutto dell’America di oggi. L’orrore di un tempo armato in cui sulla scacchiera della Storia sono ancora i poteri religiosi e quelli economici a fare da padroni. Un tempo in cui, non c’è dubbio alcuno, continuerà a scorrere del sangue.

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

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