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Big Fish – Le storie di una vita incredibile, tra fiaba e realtà

Tratto dall’omonimo romanzo di Daniel Wallace, la pellicola è realizzata dal tanto amato quanto odiato Tim Burton. Senza dubbio essa rappresenta una grande prova di talento e coraggio per il regista statunitense: infatti, appena due anni prima, aveva collezionato uno dei suoi più grandi fallimenti cinematografici, ossia il remake de Il pianeta delle scimmie, celebre cult di fantascienza del 1968. Big Fish – Le storie di una vita incredibile è il suo grande riscatto, nonché uno dei suoi esperimenti emotivi meglio riusciti. Parte di questo successo è imputabile alla natura autobiografica del film: durante le riprese Burton aveva perso il padre e a breve sarebbe diventato genitore con la compagna Helena Bonham Carter, indispensabile figura nei set dei suoi film.

Protagonista è Edward Bloom, uomo dal forte carisma e spirito temerario, il quale adora raccontare le straordinarie avventure della sua vita, dove il confine tra reale e irreale viene oltrepassato con la stessa maestria di un bambino che gioca al suo passatempo preferito, e, oramai anziano, usa i suoi ricordi come controcanto a una vita sedentaria e danneggiata da una lenta malattia. La fantasia di Edward non è mai stata accettata dal figlio William ‒ accanito, quasi per contrasto istintivo, nella ricerca della verità nelle imprese paterne ‒ che, rassegnato all’assenza di un autentico dialogo, non ha più rapporti con lui da molti anni. Solo la malattia lo spinge a ritornare nella casa della sua infanzia, in compagnia della moglie francese in dolce attesa.

Un cast di grandi interpreti sfila con naturalezza dall’inizio alla fine: Jessica Lange, Marion Cotillard, Steve Buscemi, Danny DeVito e Billy Crudup che veste i panni del figlio, in un ruolo apparentemente sottotono ed estremamente complesso. La narrazione scorre fluidamente su una struttura parallela, tra le incredibili vicende di un Edward giovane interpretato da Ewan McGregor  e i resoconti densi di malinconia di un Edward vecchio portato sullo schermo da Albert Finney, e così i flashback costanti, anziché interrompere la storia, contraddistinta dalla tipica atmosfera fiabesca burtoniana, si inseriscono perfettamente all’interno.

La variazione cromatica incide sull’andamento della trama, investendo i contesti rappresentati di una considerevole carica emotiva, un gioco di ombre e luci denso di suggestioni. Ma l’ambiente è diverso rispetto ai lungometraggi che hanno reso celebre il regista. Le sue tinte pastello e un’aura magica quasi nebbiosa accompagnano le meravigliose azioni di Edward, sempre in biblico tra sogno e realtà, conferendo all’insieme una unicità facilmente percepibile. Ormai chiunque attorno a lui conosce le sue gesta e tutti le ascoltano con gioia senza chiedersi se ci sia della verità; tutti tranne William, il quale ha smesso da tanto tempo di ascoltare. Lui impersonifica la realtà con la sua sommessa pesantezza, e in tutte le storie del padre, che ormai conosce a memoria, cerca costantemente l’autenticità, sente il bisogno di aggrapparvisi per poter dire a se stesso di conoscere davvero suo padre, e non il cantastorie a cui tutti sono affezionati, stanco del suo pittoresco egocentrismo capace di rovinargli perfino il giorno del matrimonio.

Padre e figlio rappresentano l’eterna lotta tra realtà e immaginazione, e ciò che il film offre è la possibilità di comprendere il valore della narrazione e del racconto, capace di unire ed eternare persone e luoghi, incisi nella memoria degli affetti. Una lezione indispensabile compresa lentamente da William, trasportato ancora una volta nel mondo di Edward, una storia dopo l’altra. Schegge di vita coinvolgenti e intrise di quel senso gotico e fatato tipico di Tim Burton, in cui colori sovraesposti, laccati da un look pop in pieno stile anni ’50, coesistono sulla scena con atmosfere plumbee e creature straordinarie. Ispirato al profondo buio di Lynch e al parossismo dei Coen, il film merita di essere annoverato tra i grandi successi di Burton, come Edward mani di forbice e La fabbrica di cioccolato. Pieno di una dolcezza rivelata in ogni dettaglio e nei volti dei personaggi, abilmente diretti dal regista, Big Fish riesce a colpire sia adulti che bambini. Ogni elemento che viene fuori è la voce della malinconica fantasia del protagonista, innamorato della sua vita meravigliosa a cui dedica tutti i suoi ultimi sforzi. Realtà, immaginazione e racconto si fondono nel proseguire della storia, fino a rivelare lo scopo della loro presenza, sia a William, sia di riflesso agli ascoltatori: non ha importanza individuare l’orizzonte che separa la realtà dalla finzione, né come gli eventi di una vita si siano effettivamente svolti, ma conta ciò che essi sono in grado di trasmettere mentre si raccontano e si ascoltano, al di sopra di qualunque giudizio. Le storie di Edward sono sfumature della sua anima, dove avventure e mostri coesistono con persone e momenti di tutti i giorni. La quotidianità, dunque, il cui peso può a volte schiacciare chi la vive, non ha più valore della fantasia, attraverso cui si cerca di combattere la monotonia e il dolore che attende qualunque esistenza. Il finale commovente del film rappresenta la presa di coscienza di questa verità ibridata di magia – “il realismo magico” – da parte di William, che per la prima volta si ritrova a improvvisare insieme al padre la sua ultima straordinaria impresa, incredibile al punto tale da riuscire ad accompagnare le ultime ore di Edward, in attesa di spegnersi bloccato in un letto d’ospedale. Un bellissimo insegnamento da impartire a tutte le età, e che fa di questo film una piccola perla degli anni 2000.

Marcella Maria Caputo

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