La meglio gioventù è un film del 2003 del regista Marco Tullio Giordana che prende il nome da una raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini. Attraverso le vicende della famiglia Carati, appartenente alla piccola borghesia romana, il regista presenta anche la storia dell’Italia degli ultimi quarant’anni (1966-2003). Il film si concentra principalmente sulle figure dei due fratelli Matteo (Alessio Boni) e Nicola ( Luigi Lo Cascio). Il film era stato inizialmente concepito per il piccolo schermo, ma la RAI si rifiutò di trasmetterlo, probabilmente per paura degli ascolti o della durata eccessiva (6 ore), e solo dopo il successo di Cannes ha mandato in onda il film in quattro puntate che hanno, contrariamente alle aspettative, riscosso un buon successo. La trama non è particolarmente complessa: è composta dalle due storie di vita dei due fratelli, storie differenti che si intrecciano strettamente tra loro.
Giorgia, schedata come schizofrenica, è una ragazza problematica di 16 anni, orfana di madre e originaria di un piccolo paese dell’appennino abruzzese. La giovane vive in una clinica e, a causa di gravi e ignote vicende familiari, non parla quasi mai, ha paura di toccare gli altri e viene “curata” tramite elettroshock. Matteo la conosce e riesce a starle vicino, lavorando come logoterapista (figura che accompagna i malati, parlandoci e passeggiandoci per farli sentire a proprio agio) nell’istituto in cui è rinchiusa. In questo periodo fra i due nasce un forte legame che spinge Matteo a condividere finalmente con qualcuno le sue passioni. Matteo arriva a liberare Giorgia non per curarla, ma perché il mondo deve cambiare, perché la vita dovrebbe essere più vera e più giusta. Separata dal mondo normale, vivente in un mondo altro, insondabile e per questo sano, Giorgia è il vero alter ego di Matteo. Liberata da questo e curata da Nicola, sarà lei la prosecutrice dell’opera di salvazione iniziata da Matteo, che farà sempre più fatica ad inserirsi nelle vicende di tutti i giorni. Abituato a cogliere il particolare, si fa guidare da un ideale talmente forte che la sua vita si riduce ad una triste ombra; non può accettare le linee curve, i compromessi, ma non può essere nemmeno una vita che sia una linea retta come il puro ideale, è quindi una vita di linee spezzate, di segmenti che non combaciano. Così alla ricerca di un ordine Matteo si arruola nell’esercito e poi entra in polizia, così che si sappia chi dà ordini e chi li riceve, che i rapporti siano netti e squadrati, che non ci siano fusioni nell’ordine della gerarchia, che esteriormente ingabbia ma allo stesso tempo rende liberi verso l’assoluto.
Il segreto del dramma di Matteo è nel rapporto con mamma Adriana, che riconosce di non essere stata per lui una buona madre. Nelle scene madre-figlio, Adriana perde questo ruolo, diventa una delle donne, dei personaggi della vita di Matteo che l’hanno idolatrato, con delicatezza e senza ostentazioni (tiene la pagella con tutti “dieci” appesa sul comodino) e per lei ciò che Matteo non fa e non dice va bene come se lo dicesse e lo facesse. La lunga sequenza dell’ultimo dell’anno del 1983 – la notte in cui Matteo si suicida – è un capolavoro di finezza introspettiva e di simbolismo. Il racconto qui si concentra sulla narrazione di una tipica lenta serata di fine anno di una famiglia borghese. Matteo entra nella casa della madre, dove l’intera famiglia è riunita intorno al tavolo intenta a giocare a carte. Il mercante in fiera, sapientemente scelto dagli sceneggiatori, è una simbologia della vita borghese, dove si parte tutti alla pari, ma poi si viene ingannati o baciati dalla fortuna. Quando entra Matteo, un alieno piombato in un contesto estraneo, Carlo, amico di Nicola dai tempi dell’università, divenuto funzionario di alto rango della Banca d’Italia, marito della figlia più piccola della famiglia, avvolgente, paterno, equilibrato, vorrebbe avvolgere anche Matteo in quella che sembra essere una famiglia serena, ma che è invece provata da dolori diversi: Carlo è puntato dai terroristi; Nicola (con la figlia Sara) è stato abbandonato da Giulia, divenuta brigatista, Giovanna è separata, Adriana è vedova. Ma ci sono i bambini e la famiglia borghese maschera il proprio dolore e ricompone la sua angoscia per dare gioia ai figli. Matteo per un attimo è integrato nell’abbraccio dei parenti, è rientrato in quella famiglia, sta tornando indietro nel tempo, alla sua infanzia, alla madre, quel percorso a ritroso che lo porterà alla morte. Ma per la madre quel figlio non è un bimbo da salvare, ma un idolo, come è il figlio da tutti 10, è il figlio troppo bello e che lavora per il bene. E allora Matteo, che forse vorrebbe ricominciare da zero proprio la notte dell’ultimo dell’anno, ritorna il duro, il forte che ha un caso difficile in questura, che non deve essere disturbato, che deve andare via. E così, di stanza in stanza, attraverso un lungo corridoio, ripercorre tutta la sua vita, dal concepimento all’infanzia, alla giovinezza fino a ritornare nella sua solitaria casa da single, prova a mangiare qualcosa, prende la carne dal frigorifero, la annusa, puzza di putrefazione. Proprio come la carne esposta in TV nei primi programmi discinti delle reti commerciali. Matteo non può accettare un mondo che va in putrefazione. E decide di abbandonarlo.
C’è, però, ancora Mirella che solo quella sera aveva scoperto tutte le bugie di Matteo: che “Nicola” è Matteo, che Matteo non è un ingegnere. Così le telefona, ormai è il primo dell’anno, la voce morta di una segreteria telefonica impedisce ai due di parlarsi. Matteo deve morire per rivivere. La morte autoinflitta non sarà vana: dal suo libero sacrificio rinascerà Nicola. Nicola è il baricentro del film che, grazie al suo sguardo, riesce a non divenire mai eccessivamente melodrammatico. Nicola accoglie e introietta, trasforma e rigenera, è in perpetua ricerca, è il medico che cerca la cura innanzi tutto per sé stesso. Cura, non come soluzione miracolosa a ogni problema, ma come adattamento sapiente e misurato a un mistero sempre troppo grande. La complementarità di Nicola con il fratello è la vera anima del film e racchiude il ricco messaggio del regista, di cui Nicola esprime il punto di vista di quella parte riflessiva della generazione che voleva cambiare il mondo e c’è riuscita. Nicola non rinuncia a cercare le strade che possano portare a umanizzare le relazioni civili e sociali.
È il ragazzo normale, che aiuta il padre, se richiesto, che desta simpatia anche nell’eccentrico “dinosauro” universitario. Vi è però una primissima scena del film, quella in cui Nicola aiuta il padre a caricare un televisore in macchina, in una cornice quotidiana, in una scena che potrebbe passare sotto silenzio, dove invece è sapientemente accennato il peso del rapporto tra i due fratelli. Il padre che poco prima stava chiedendo delle stranezze di Matteo a Carlo, presente nella scena insieme a Nicola, regala al figlio uno scheletro da studio di anatomia e Nicola lo prende in braccio come una Pietà. Quello scheletro è il simbolo, il peso, il dolore che Nicola dovrà sorreggere, rappresenta già dalla prima scena la sua missione: reggere il peso del dolore, trovare la cura che dalla tristezza porti alla gioia, dalla follia alla sanità, dalla morte alla vita. Nicola infatti farà del dolore mentale il più sfuggente e doloroso dei mali, il vero campo di battaglia della sua vita e nel suo non soccombere sta l’eroismo e l’ottimismo che la storia trasmette, nonostante le tante tragedie che la costellano.
Se all’inizio della storia Matteo interrompe il viaggio di vacanza, come interrompe gli studi accademici, Nicola è il viaggiatore puro, entra nei mondi, vuole coglierne l’anima, ma senza profanarli. Per lui tutto è degno di essere conosciuto e ammirato nella sua irripetibile unicità. Quando i dolori della vita si faranno grevi e molteplici, quando il suo amore e la sua forza sembreranno inaridirsi, sarà l’ascolto di Giorgia, la paziente che lui ha salvato, a salvarlo e a rimetterlo in viaggio. Giorgia vuole che Nicola si metta alla ricerca di Mirella e lo spinge a ripartire, a ripercorrere le strade del fratello, ad andare in Sicilia, isola arcana, e lì trovare una chiave per riaprire alla vita e alla speranza sé stesso e gli altri. Nicola è capace di trasmettere un universo di valori senza mai essere moralista o saccente, perché egli stesso sa ascoltare coloro ai quali può insegnare qualcosa e riceve da loro insegnamenti e valori in un dialogo continuo che intesse tutta la storia. I dubbi non lo portano mai allo scetticismo, l’angoscia e il dolore non lo isolano, ma lo sfidano a riprendere il cammino. Del gioco della vita non rinnega le regole, a volte troppo dure, a volte bizzarre. Crede solo fermamente che il gioco sia degno di essere giocato, che il viaggio vada proseguito, che il testimone debba essere passato.
Nel finale del film la sua figura giganteggia: Sara perdona la madre, Mirella diverrà forte e splendente e il loro amore potrà avere inizio. Andrea, il nipote-figlio, raggiunge Capo Nord con Ermione, compirà quel viaggio che Matteo, padre fisico, e Nicola, padre spirituale, non avevano portato a compimento. Nicola, allora, è un moderno Edipo che può ancora dire che “Tutto è bello”.
Alla visione del film quello che emerge è la grande attenzione del regista verso gli aspetti psicologici dei protagonisti. La storia di una famiglia che rappresenta tutti noi, nelle contraddizioni, nelle miserie, nella dignità, nella forza e nel carattere, che attraversa con le sue interne vicende tutto questo fondamentale periodo storico nostrano. Si potrebbe continuare all’infinito a decantare le lodi, i temi, la complessità dei rapporti che vengono rappresentati così acutamente in quest’opera. Sei ore di film che potrebbero sembrare un atto di presunzione da parte degli autori, trattandosi di un film che esce dai canoni tipici in termini di durata. Ed invece, armoniosamente, concretamente, ma anche profondamente, questo film ci spiega tutti i drammi, i grandi temi e le lunghe pagine della nostra storia recente attraverso le vicende di una famiglia allo stesso tempo qualunque e unica. La pellicola diventa poi luogo per uno straordinario incontro di grandissimi attori, da Adriana Asti a Luigi Lo Cascio, da Fabrizio Gifuni a Maya Sansa e riesce a lanciare un gruppo, che sarà da allora protagonista del nuovo corso del cinema italiano. Il finale in Norvegia con il giovane Riccardo Scamarcio non è solo la chiusura circolare della storia, ma diventa un ideale passaggio di consegna con la generazione successiva, chiamata ad andare avanti senza mai perdere la memoria. Giordana lascia lo spettatore con uno sguardo di purezza e ottimismo, rivolto ai più giovani.
Alla meglio gioventù.
Anna Chiara Stellato
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