L’orologio del mio pc segna le 11:57 di lunedì 22 maggio. Mancano ancora otto ore alla fine del Salone Internazionale del Libro di Torino. Nel weekend ci ho passato un po’ di tempo, delle cinquanta ore previste di attività, eventi e incontri, credo di esserci stato per poco meno di una decina. Sempre in piedi, mai fermo, a stringere mani, abbracciare amici, chiedere consigli, ascoltare storie, scegliere libri, sfogliarne altri, brindare a chissà cosa, raccontare storie, sorridere e ridere di gusto. Per uno come me, una specie di festa che vorresti non finisse mai!
Ho visto come in uno strano ed enorme luna park più di quattrocento editori raccolti in uno spazio troppo grande da contenere in un solo sguardo. I più-di-quattrocento li ho visti esprimersi come meglio potevano: c’erano stand con poster dei propri libri appesi alle pareti, piccoli e ammassati in un angolo a difendersi dai grandi con orgoglio; ce n’erano altri che si difendevano a centro sala, unendo le forze tra più editori, come piccole piazze confortanti; c’erano stand così complessi nella loro architettura che ti costringevano ad alzare la testa e battere le palpebre più volte e notare i libri solo al terzo-quarto battito; c’erano stand colorati in zone grigie e stand grigi in zone colorate; c’erano stand che parevano negozi, con i sensori all’entrata e le casse all’uscita, quasi come non ci fossero redazioni ma solo commessi per certi nomi; c’erano stand così affollati da farti rinunciare per non perdere altro; c’erano stand in cui ti servivano sorridendo, ti consigliavano sorridendo e anche a passarci dieci volte ti pareva sempre una festa; ma c’erano anche stand dove chi doveva provare a vendere se ne stava lì a sbuffare e sobbalzare quando qualcuno toccava un loro volume; c’erano stand dove a dire «complimenti, fate un ottimo lavoro» potevi metterli in imbarazzo, tanto che non rispondevano grazie ma ti guardavano come fossi arrivato chissà da dove per prenderli per il culo.
Tra gli stand, per le arterie artificiali di Lingotto, ho sbirciato dietro le tende delle sale eventi – perché a starmene fermo in fila proprio non ce la facevo – e ho visto autori presentare i loro libri come meglio gli riusciva: impettiti, con voce calma o imprecisa, insicuri e professionali e talentuosi e speranzosi, coi volti segnati dalla stanchezza e il sorriso necessario, accompagnati da altrettanto esperti relatori.
Ho perso tra la folla i miei amici e li ho ritrovati ore dopo a dibattersi su quale edizione scegliere d’un libro. Ho ascoltato gente chiedersi se un capolavoro annunciato dalla copertina lo fosse per davvero e altri buttare in borsa tutto quello che gli capitava sottobraccio «perché tanto i soldi spesi in libri non sono mai sprecati». Ho visto comprare due libri uguali, perché un buon libro lo si legge e lo si regala. Ho comprato e regalato e ricevuto.
Sono stato in meno di dieci ore a un’enorme festa-libreria dove l’entusiasmo era diffuso, palpabile, e vorrei tanto arginarlo ora che scrivo queste righe, ma Torino i suoi trent’anni li ha festeggiati alla grande e devo rispettare la promessa di raccontare il Salone solo per come l’ho percepito. Di raccontare solo la faccia che mi ha mostrato. In fondo non sbaglio di molto: gli editori erano contenti, i lettori erano contenti e il buon esito sembrava stampato sulla faccia di tutti.
All’uscita ho visto gente con borse piene di libri, trasportate a fatica, così piene che di certo non potranno leggerli tutti perché intanto ne compreranno altri. Qualcuno l’ho rivisto in treno già a sfogliare le prime pagine. Ho visto e cucito negli occhi, come credevano di fare un tempo gli arabi quando ricordavano le storie che avevano ascoltato, e ho sorriso, affettuosamente, quando ho visto uscire dal Salone una ragazza con le trecce, senza borsa o zaino, e soltanto un barattolo di marmellata appena acquistato: dev’essere stata davvero buona se l’ha preferita a tutto il resto…
Antonio Esposito
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