Nell’America depressa dalla storica crisi economica, tre galeotti neoevasi tentano un sogno di fortuna; a rincorrerli c’è una figura che porta occhiali scuri, un cane al guinzaglio e rifiuta la legge dello stato del Mississippi in nome della sua personale giustizia. Detto così sembrerebbe il canovaccio di un western tutto inseguimenti, pallottole e rese dei conti, se non fosse per la strana profezia, messa in bocca a un moderno traghettatore nero, a dieci minuti dall’inizio. Ma è pur giusto che siate voi a giudicare la natura di questo film. Possiamo solo dirvi che questo gioiellino del Duemila porta la firma di due geniali sperimentatori: i Coen.
Nel laboratorio in cui i due fratelli giocano a sperimentare soluzioni differenti e “mixage” improbabili, l’America degli umili e degli emarginati è quasi sempre il soggetto e lo sfondo più prelibato: esposta nella vetreria, osservata e analizzata fin nel dettaglio più infimo, restituisce un’inesauribile ventaglio di possibilità narrative. Ispirandosi ai grandi storytellers statunitensi, i due registi bloccano l’istante storico, scelgono pedine fuori dal comune e amano ritrarle nei grandi scenari delle praterie del sud, nell’isolamento rurale lungo il corso di un fiume che si verserà poi nel Golfo del Messico, oppure ancora nei detriti della cultura americana fatta di supermarket e fastfood. Abituati dalla visione delle prove passate (Fargo o Il grande Lebowski), i cliché di Fratello, dove sei? non stupiscono e piuttosto confermano l’abilità autoriale, alleggerita pasticciando con il cinema di genere e i grandi modelli letterari. 10 minuti di pellicola e si ha l’impressione di essere entrati in contatto con qualcosa di già incredibilmente familiare. In fondo i Coen non nascondono l’ovvio, definendo “libera riscrittura dell’Odissea” la pretesa di leggendarietà percepibile nell’incipit di questa opera cinematografica; piuttosto, si impongono pubblicamente di snaturarla: sulla serie di fortunate strategie narrative che spingono a guardare indietro fino alle tecniche espositive dei grandi aedi dell’antichità, agisce un grado di ironia e demenza gratuita che serve a rovesciare completamente il contegno del modello classico.
Torniamo al principio: il galeotto Everett Ulysses McGill (col volto di un George Clooney tutto ambiguità, fascino e gelatina per capelli) dichiara a due insoliti compari, Delmar e Pitt, di aver nascosto il bottino della sua ultima rapina nei pressi di una diga. L’unico modo per appropriarsene è raggiungerlo prima della distruzione della stessa, prevista proprio di lì a poco. Grazie alle argomentazioni galvanizzanti di questo moderno Odisseo, al suo razionalismo “fai da te” e all’apparente e travolgente spirito d’iniziativa, i due ingenui e titubanti soci si convincono della necessità e dell’impellenza dell’evasione forzata per la ricerca del tesoro. Ciò che segue la fuga è l’inizio di un viaggio sventurato come annunciato per bocca di uno strano oracolo che veste luridi abiti e traghetta fortunati avventori lungo i binari di una desolata strada ferrata …
Mentre i tre fuggitivi attraversano lo stato del Mississippi in un’improbabile corsa contro il tempo, un mastino fiuta le loro tracce; nessuno ci informa circa la reale identità del suo proprietario: forse una guardia della prigione o un mercenario assoldato per riportarli in gattabuia, o forse non è dato sapere chi si nasconda dietro gli impersonali occhiali scuri. Il viaggio prosegue uscendo fuori dai suoi binari e portando i tre protagonisti all’incontro-scontro con personalità fuori dal comune: attraverso la conoscenza del folle bandito George Nelson e della sua devota e instancabile attività di saccheggiatore di banche, in un gioco di inseguimenti automobilistici a base di proiettili, comprenderanno il contrappasso che si nasconde dietro un’euforica corsa alla ricerca di gioie violente. Da un dolce canto di “sirene” saranno attratti sulle meno dolci rive di un fiumiciattolo, dove, desiderosi di godere di ristoro carnale, verranno ingannati e denunciati per una taglia che pesa sulle loro teste, mentre da un Polifemo, dotato di straordinarie e impareggiabili doti oratorie, saranno guidati in una trappola, picchiati e derubati di tutti i loro beni.
Da ogni nuova inquadratura di questo film si dichiara amore a uno spunto culturale preciso, e nonostante ai Coen non piaccia fare cinema impegnato, il risultato è una coerente e impeccabile macedonia di input intellettuali e artistici insieme. Che per esempio i rimandi biblici costituiscano il cemento armato delle costruzioni dei due fertili fratelli è ben dato saperlo; ma che questi riescano a sposarsi perfettamente con materiali laici e pagani come quelli forniti dall’opera omerica, è ambizione concessa veramente a pochi registi. Se poi il fare cinema diviene un pretesto per commemorare la storia del musical, del vaudeville e dello spettacolo musicale di varietà, che nell’America degli umili immigrati affondano le loro origini, allora il miscuglio di pietanze è completo e pronto per essere servito: durante un improbabile provino in una storica sala di registrazione anni ‘30, grazie a un microfono di latta i tre soci incideranno un inconsapevole tormentone, che li porterà presto a raggiungere l’inaspettata fortuna che l’oracolo aveva annunciato. Non più milioni di pepite in oro per i neonati Soggy Bottom Boys, ma la possibilità di sbarcare il lunario con contratto discografico alla mano.
L’odissea dei Coen è un lungo cammino di fortuna negli stati americani colpiti dalla depressione, lì dove tradire i propri parenti rappresenta l’unica possibilità di riscatto economico e rapinare banche è considerata una mossa eroica, perché plausibile forma di ribellione contro le dure leggi economiche imposte dalla lenta ripresa. Tra incursioni di fortuna in fattorie e piccoli villaggi rurali, i tre ex-galeotti rincorrono i propri sogni di successo. Se il riferimento al poema greco risulta evidente ed esplicito, anche grazie alla popolarità del modello, non è altrettanto chiaro il rimando ad un’altra spinta propulsiva che agisce forse anche più prepotentemente sul film. Pur essendo sempre stata rifiutata ogni possibile rilettura di un altro caposaldo del genere, I dimenticati (nella versione originale Sullivan’s Travels) di Preston Sturges, è alquanto problematico non rintracciare alcun riferimento a questo prodotto del 1941. Stride troppo la vicenda del suo protagonista, per non essere ascoltata o per lo meno menzionata: il regista pluripremiato John Sullivan vuole raccontare la vita dei poveri utilizzando una sceneggiatura realistica, che riesca tragica grazie alla semplice fedele raffigurazione delle esperienze isolate prese in esame; oppresso da questo proposito, si convince che vivere da derelitto possa restituirgli tutto il materiale di cui ha bisogno per portare a termine la sua nobile impresa cinematografica, la stessa per la quale ha paradossalmente già ideato un nome, per l’appunto Fratello, dove sei?. Ne I dimenticati John abbandonerà gradualmente l’idea iniziale, ripiegando su un film comico. Circa mezzo secolo dopo i Coen hanno raccolto il guanto di sfida gettato da Sturges: hanno così prodotto un film sulle miserie della gente, che “fa ridere”, capace di essere leggendario e poetico insieme.
Francesca Ciaramella
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