Francis Scott Fitzgerald: i racconti dimenticati
Quest’anno, finalmente, gli inediti di Francis Scott Fitzgerald sono usciti in Europa, in contemporanea con gli Stati Uniti, in una raccolta intitolata Per te morirei e altri racconti perduti, curata da Anne Margaret Daniel (autrice di numerosi volumi monografici sullo scrittore, insegnante di letteratura presso la New School di New York) e tradotta in italiano da Vincenzo Latronico (scrittore e traduttore italiano, laureato in Filosofia) per Rizzoli.
Più che racconti perduti, sono racconti rifiutati e poi dimenticati, donati all’Università di Princeton dalla figlia Scottie negli anni Cinquanta e rimasti lì, sepolti in archivio. Gli scritti, infatti, risultano nuovi perché mai pubblicati, cestinati al loro tempo dalle stesse riviste a grande diffusione che, quando Fitzgerald era all’apice della sua carriera, si erano contese ogni sua parola (addirittura, gli editori e i direttori delle riviste erano arrivati a pagare fino a quattromila dollari a pezzo, una cifra folle per il mercato di allora).
I racconti sono organizzati in ordine cronologico e per ognuno è stata prevista una sorta di presentazione nella quale la curatrice illustra gli itinerari affannosi: da cosa avesse ispirato l’autore e in quale momento ormai difficile della sua vita si trovasse, alle speranze che egli stesso riponeva e all’inesorabilità del rifiuto.
L’idea di introdurre ogni racconto mi sembra appropriata, sia perché consente al lettore di contestualizzarlo, permettendogli una lettura più consapevole, sia perché consente a ogni racconto di mantenere una propria “indipendenza”, dato che nessuno di questi era stato pensato dall’autore per una raccolta, trattandosi piuttosto di short stories inviate singolarmente nel corso degli anni Trenta a diverse riviste e testate, cui si aggiungono alcuni soggetti per il cinema.
Il racconto che apre la raccolta, Il pagherò del 1920, parodia del mondo dell’industria editoriale, è l’unico scritto quando Fitzgerald era ancora l’autore ventitreenne di Di qua dal paradiso. Tutti gli altri appartengono agli ultimi anni della sua vita, riflettendone l’inesorabile immagine.
Per apprezzare e capire a fondo questi racconti e poter dare una spiegazione al fatto che siano stati rifiutati per poi essere dimenticati, è necessario analizzare le tappe fondamentali della vita e, soprattutto, della carriera stessa dell’autore, partendo dallo stralcio di una delle ultime lettere scritte da Fitzgerald che, a mio avviso, permea tutta la raccolta.
“[…] dubito che scriverò molti altri racconti sugli amori giovanili. È un’etichetta che mi è stata affibbiata dagli esordi fino al 1925. Da allora ho scritto spesso sull’argomento, e con difficoltà e insincerità crescenti. Bisognerebbe essere un vero mago o un imbrattacarte per continuare a sfornare un prodotto identico per tre decenni. So che è questo che ci si aspetta da me, ma in quell’ambito il pozzo è pressoché prosciugato e mi sembra più saggio non sforzarmi più di trarne ancora qualcosa per andare invece in cerca di un’altra sorgente, una vena nuova […]”.
Scott Fitzgerald a Kenneth Littauer, direttore della rivista Collier’s, 1939 (la lettera è quella con cui Fitzgerald invia il racconto Le donne di casa).
Fitzgerald pubblica il suo primo romanzo, Di Qua dal Paradiso, nel 1920. Ben accolto, diventa subito un vero best seller sia per le qualità di freschezza e di spirito che lo caratterizzano, sia per il tono spregiudicato con cui esplora la vita sentimentale degli adolescenti americani negli anni Venti. L’autore diventa così uno dei portavoce della nuova generazione e principale rappresentante di quella che venne definita Età del jazz, periodo, tra la fine della prima Guerra Mondiale e l’avvento della Grande Depressione (1918 – 1928), favorito da un fenomeno di grande espansione industriale che ha creato mode e determinato tendenze praticamente in ogni aspetto del costume e dell’arte del tempo.
Il suo secondo romanzo, Belli e dannati, viene pubblicato nel 1922. Anch’esso ottiene un enorme successo. Fitzgerald è all’apice della sua carriera. È felicemente sposato con Zelda, è diventato padre della piccola Scottie e vive senza badare a spese, finalmente inserito in quella nuova borghesia americana per la quale spesso aveva provato ammirazione e invidia benché rilevasse la corruzione e l’apatia associate a quello stile di vita.
Possiamo quindi considerare logico che i racconti scritti in questo periodo fossero ben accolti dalle riviste editoriali. «Dare alle riviste ciò che volevano» era l’indirizzo che aveva caratterizzato il suo esordio e continuò a dimostrarsi proficuo per tutti gli anni Venti. Infatti Fitzgerald scriveva racconti perché sapeva bene quanto e quanto in fretta avrebbe potuto guadagnare, invece di aspettare il tempo necessario ad accumulare materiale sufficiente per avviare la pubblicazione di un romanzo.
Ma è anche vero che far questo risultasse sicuramente più facile nel clima positivo, festaiolo e spensierato dei ruggenti anni Venti.
Nel 1925 Fitzgerald pubblica il suo terzo romanzo, Il Grande Gatsby. Benché T. S. Eliot lo definisce «il primo passo in avanti fatto dalla narrativa americana dopo Henry James» e benché secondo Andrew Le Vot (biografo di Fitzgerald) «riflette, meglio che in tutti i suoi scritti autobiografici, il cuore dei problemi che lui e la sua generazione dovettero affrontare», il romanzo non ottiene il successo dei precedenti.
È da qui in poi che comincia a mutare qualcosa. La prima crisi matrimoniale, i litigi sempre più intensi e insanabili, il consumo sempre più smodato di alcolici, i problemi di salute, la crisi del ’29, la Grande Depressione, la fine dell’Età del jazz, la schizofrenia di Zelda e i suoi ricoveri, le gravissime difficoltà finanziarie, l’insuccesso.
Il mondo è cambiato. Fitzgerald è cambiato.
Dopo aver raccontato la propria crisi nel 1936 in quei tre articoli pubblicati per Esquire, passati alla storia con il titolo del primo: The Crack-Up , Fitzgerald cerca solo la verità. Niente più lieto fine, come imponevano le mode, a costo di non pubblicare. «Rimandamelo e basta» scrive del racconto che dà il titolo alla raccolta, opponendosi con decisione alla proposta di cambiarne toni e finale. Relativamente al racconto Un ciclone nel silenzio, scrive ad Harold Ober che se il «Saturday Evening Post» aveva «accampato giustificazioni puramente morali» o qualsiasi altro motivo per respingerlo, allora era venuto il momento di modificare la prassi ormai consolidata di offrire i suoi scritti in primo luogo a quella testata. Definirlo inamovibile sul fatto di non cambiare una virgola è ancora un eufemismo: «Piuttosto preferisco trasferire Zelda in un manicomio statale e vivere con i duecento dollari al mese di “Esquire”».
Ed anche quando arriva il momento drammatico in cui le necessità pratiche rendono impossibile fare diversamente, i racconti frizzanti e vitali degli anni Venti non escono più dalla sua penna. Emblematico, in questo senso, il racconto Fuorigioco che in qualche modo è un ritorno al passato, una fantasia nostalgica, un esempio del tentativo di Fitzgerald di sfornare nuovamente quello che definiva «un prodotto identico», il genere di storia che il pubblico pretendeva ancora da lui. Ma pur sullo sfondo privilegiato della Ivy League, il racconto lascia spazio a tradimenti, menzogne, sesso e corruzioni, non riuscendo più a non andare oltre l’apparenza gradevole dei personaggi ma volendo renderli più realistici e persino crudi.
Si è stancato di scrivere solo per denaro, ormai vuole scrivere soltanto quel che è capace di scrivere. Nient’altro.
È questo il contesto interiore ed esteriore nel quale vengono prodotti i racconti di questa raccolta. Sono storie in cui giovani uomini e giovani donne parlano e pensano in una lingua nuova per l’epoca, senza censure, senza limitazioni di matrimonio, amore e sessualità; ci sono finestre spalancate sui sanatori e le cliniche psichiatriche; ci sono spaccati della guerra civile, senza sconti alla violenza di quel momento fondante della storia americana; ci sono le montagne del North Carolina, che Fitzgerald frequentò a lungo per curare la sua salute, e l’amatissima New York, ora meno scintillante, quasi periferica, più vera. C’è il mondo del cinema, scintillante ma non immune alle malinconie, e ci sono i ricchi, quella frangia della società che Fitzgerald come nessun altro aveva saputo raccontare negli anni Venti, accanto ai poveri resi sempre più poveri dalla Grande Depressione.
Fitzgerald, pur continuando a scrivere in quello stesso modo accurato, arguto, emozionante e diretto dei primi tempi, è cambiato e questo gli rende ovviamente impossibile continuare a «dare alle riviste ciò che vogliono».
«Incanutito e appesantito, di questi tempi F. Scott Fitzgerald è considerato uno degli autori più difficili con cui un editor possa trovarsi ad avere a che fare. È il simbolo letterario di un’era – l’epoca della nuova generazione – perciò gli editor continuano a pretendere da lui storie di universitari galanti che, con la fiaschetta di gin nascosta sotto la giacca, sfrecciano in macchina a notte fonda e finiscono catapultati attraverso il parabrezza insieme alle loro giovani dame. Anche il pubblico si è abituato a questo Fitzgerald. Invece, con il passare degli anni, lui ha imboccato una strada più seria. È maturato, questo è il termine corretto. Perciò vuole anche scrivere in modo più maturo. E se non gli sarà permesso, lui smetterà di scrivere, punto e basta.»
O.O. McIntyre, rubrica New York Day by Day, 1936
Analizzando il quadro storico di quegli anni, è possibile riscontrare le ragioni degli impedimenti posti al più maturo Fitzgerald da un lato, nel tentativo delle riviste editoriali e degli editori stessi di rimanere ancorati a una spensieratezza e serenità ormai passate nascondendo sotto il tappeto la polvere prodotta dalla Grande Depressione e dall’avvento di una seconda guerra a portata mondiale. Dall’altro, nel fatto che le più importanti testate editoriali e case editrici in quegli anni non fossero molte e formassero una sorta di “oligopolio”, costringendo chi volesse pubblicare a dover seguire un unico indirizzo.
Probabilmente anche oggi, guardando il mercato editoriale e pensando alle più grandi case editrici, si potrebbe parlare di una sorta di “oligopolio”, sicuramente più progressista ma sempre ristretto a pochi. Tuttavia, rispetto ai tempi di Fitzgerald, è fortemente mitigato dalla presenza, sempre maggiore fortunatamente, dalle piccole e medie case editrici indipendenti, che, nonostante le grosse difficoltà economiche permettono una concorrenza più libera.
Durante le mie ricerche mi sono imbattuta nell’antologia tradotta da Minimum Fax, Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato, che raccoglie le riflessioni e i giudizi espressi, lungo tutta la sua vita, dal grande scrittore americano sul tema dello scrivere.
Ne sono rimasta molto colpita (probabilmente perché, immagino a differenza di molti, non ne conoscevo l’esistenza) e vorrei concludere con tre riflessioni dello stesso Fitzgerald, che credo diano, in modo semplice e conciso, un’idea della sua personalità come scrittore.
- «All’origine di tutto ci dev’essere un’emozione che mi tocchi da vicino e che io possa capire», riguardo l’emozione da cui la lingua scaturisce.
- «Non si scrive per dire qualcosa; si scrive perché si ha qualcosa da dire», relativa alla necessità di raccontare.
- «Per raccontare bisogna essere imprudenti», sulla sfida alla possibilità sempre presente del fallimento che uno scrittore decide di accettare.
Désirée Pallotta Nardi