Ubik: uno e trino

“Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, io ero. Ho creato i soli. Ho creato i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi che esse abitano; io le muovo nel luogo che più mi aggrada. Vanno dove dico io, fanno ciò che io comando. Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato, il nome che nessuno conosce. Mi chiamano Ubik, ma non è il mio nome. Io sono e sarò in eterno.”

In una società votata al consumismo Ubik è il solo rimedio a ogni soluzione; che sia un balsamo per capelli, una pellicola di plastica trasparente o un condimento per insalata, la sua pretesa è unica: migliorare.

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Ubik è un romanzo di Philip Dick scritto nel 1966 e pubblicato nel 1969. Si tratta di un’opera di fantascienza, ambientata in un’America del futuro in cui il teletrasporto e le macchine omeodiane sono all’ordine del giorno, un’America in cui i distributori di anfetamine sono posti all’angolo della strada come fossero una comunissima macchinetta per le sigarette.

Il protagonista, Joe Chip, lavoratore squattrinato e impiegato presso l’agenzia di anti-spionaggio della Runciter Association, viene coinvolto in una missione su Luna con un gruppo di altri colleghi.
Un’esplosione improvvisa causa la morte di Glen Runciter, capo dell’agenzia, e comporta una conseguenza sconcertante: i sopravvissuti sono colpiti da invecchiamento precoce che li porta progressivamente a consunzione.

Il tempo diviene un’entità reversibile e inizia a scorrere in senso contrario: il suo riavvolgersi fa sì che il presente venga trascinato a ritroso nella Storia e i personaggi si trovano catapultati dagli anni Novanta agli anni Trenta.
Gli oggetti che circondano i protagonisti iniziano a invecchiare e Joe si sente trasformato in un Re Mida del deterioramento.
La morte è una minaccia incombente e grava costantemente su ogni singola persona ma come morire in una dimensione contro-temporale?
Come morire se si è già morti?

“Io sono vivo, voi siete morti”.

La frase, scritta a penna su un muro dal presunto-defunto Glen Runciter, non lascia margini di ripensamento e con la sua schiettezza denuncia una verità agghiacciante. Il graffito, posto ironicamente da Dick sulla parete di un bagno, capovolge e scompagina la situazione: non si può esser certi di esser effettivamente vivi.

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L’incidente presso la base spaziale Luna è la chiave di svolta in seguito alla quale la trama inizia a colorarsi di tinte sempre più oniriche e psichedeliche.
Con il procedere del romanzo i dubbi si infittiscono: il lettore è posto dinnanzi a una realtà che sbiadisce lentamente e perde i suoi contorni di concretezza.
Tutto si sgretola e il mondo in cui i personaggi si trovano ad agire si rivela essere semplicemente il gioco di un ragazzo, Jory, che con la sua mente diabolica crea e modella il mondo esperibile secondo i suoi capricci e attraverso i suoi pensieri.

Il lettore viene catapultato in una dimensione ulteriore e non facilmente definibile, viene proiettato all’interno di quella che sembra essere una potente allucinazione da LSD ma che esige di esser esperita con la serietà di un’esperienza reale.

“Hai bisogno di droghe psichedeliche per allucinarti? Tutta la tua vita è un’allucinazione a occhi aperti.”

La sola possibilità di sopravvivenza è Ubik, Ubik nella sua molteplicità, che sia un unguento medico o un utensile commerciale, esso è in grado di dispensare salvezza, creando tuttavia un forte legame di dipendenza.
Ubik è un prodotto che si presta a essere paragonato a una droga, additiva e salvifica nel momento in cui se ne fa uso, ma che presenta anche aspetti tipici di una divinità: “Ubik uno e trino”. Il termine ubik può essere associato alla parola latina ubique, (dovunque, in qualunque luogo) ed è quindi legato al principio dell’ubiquità, caratteristica divina per eccellenza.
In questo clima di onirica tensione, la coscienza americana viene presentata come scissa in un’ideologia del consumo e in una ricerca della sacralità: Ubik incarna questo ambiguo dualismo.

Avendo vissuto tutta la storia ed essendo giunto al termine del romanzo, il lettore si ritrova paradossalmente nella stessa situazione presentata all’inizio del libro: come in un cortocircuito, la fine concorda con l’inizio, la fine è un nuovo inizio e spinge perciò a reinterpretare retroattivamente l’opera.
La scelta di non dare risposte certe si risolve nel pregio di saper stimolare nuovi interrogativi e lascia in definitiva al lettore il gusto di soppesare quanta realtà possa effettivamente celarsi dietro alla fantascienza.

Claudia Corbetta

Claudia Corbetta nasce a Bergamo nel 1995. Frequenta il liceo scientifico su consiglio dei genitori nonostante l’animo e il cuore siano sempre votati al settore umanistico. Un infortunio arresta la sua carriera atletica da quattrocentista ma le permette di avere più tempo per leggere, scrivere e perdersi in pensieri cavillosi. La sua dichiarata passione per la letteratura la porta a iscriversi alla facoltà di Lettere Moderne di Milano. Legge romanzi e ama la poesia. Ha sempre ritenuto la scrittura una parte fondamentale della sua vita. Giustifica il suo piacere di notomizzare attraverso il linguaggio con una citazione rivisitata di Thomas Mann, per cui se l’autore dei Buddenbrook sostiene che “l’impulso a denominare” equivarrebbe a un “modo di vendicarsi della vita”, la sua giovane età la porta ingenuamente a sostenere che per lei esso sia in realtà un “modo di conoscere la vita”.

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