I trenta gradi sono arrivati prima del previsto, a metà giugno, a squagliarmi in faccia tutte le bugie che mi hai raccontato in un inverno lungo otto anni, quando dicevi di amarmi ma non restavi mai. Adesso ho più freddo di allora, tiro su la coperta per coprirmi dal gelo dei ventisette gradi che fanno di notte e dalle lame di luce che invadono ogni ferita della persiana abbassata senza meticolosità.
I piatti sono vuoti, i bicchieri macchiati dell’ultimo vino finito insieme, mentre ti agitavi per spiegarmi ragioni che non avevi. Hai provato a vendermi un altro dei tuoi poco innovativi alibi, robusti come la mela marcita nel cesto al centro del tavolo. Ne respiro forte l’odore sperando che cancelli il tuo dalle mie narici, per sempre. Invii messaggi che non leggo più, sono sensi di colpa mascherati d’amore, li conosco già. Invochi un passato che è stato vero, tu dici, ma non abbastanza da farti restare. Il rumore del mio pianto è l’ultima canzone che scrivo per te, quelle che non hai ascoltato mai perché ti annoiavano.
Mi piaceva quello che ero tra le tue mani, solo che le portavi con te, le tue mani, quando andavi via. Anche quest’ultima volta le hai portate con te, serviranno ad accarezzare la cicatrice sul suo ventre.
Volevo dirti che quando andavi via era troppo presto. Anche adesso mi sembra troppo presto, invece deve essere tardi. Volevo dirti che non sono così forte da fare tutto da sola. Le piante sul mio terrazzo stanno morendo di sete; dei quadri da appendere, in realtà, ne ho appesi solo metà. C’è una macchia di muffa sull’angolo del soffitto in corridoio, non ci arrivo nemmeno salendo sull’ultimo gradino della scala che ho comprato in fondo alla strada, che ho portato a spalla lungo la salita di casa e poi sopra fino al settimo piano. Non ho fatto la spesa, ho perso il conto del tempo mentre scrivevo l’introduzione al tuo libro. C’è l’anta di un mobile rotta in cucina, lo so che con il legno sei bravo, hai aggiustato il suo dondolo da giardino dove magari di sera l’abbracci. Mi hai detto di crescere e di resistere ancora, che alla fine l’amore, quello vero, ce la fa.
Ho scoperto che con te è difficile capirsi alla voce verità. Volevo gettare la mano nel buio della tua anima e ripescarla a tatto, la tua verità, tirarla fuori e fartela vedere, avrei voluto spalmartela sulla faccia e fartela ingoiare, come facevi con il tuo sperma su di me. Invece, non c’erano più spazi per gettare le mani fino a te. Hai costruito intorno a te una gabbia di bugie che somigliano a verità, hai provato a ripararla tante volte ma non sei bravo come col legno, hai aggiunto solo materiale a casaccio che ne ha reso così strette le maglie da non farti più riuscire a vedere fuori e io, da fuori, appena ti ci riconosco la faccia oltre le sbarre di verità che somigliano a bugie. La tua costruzione è come i palazzi reali dei parchi di divertimento, così ben fatti da sembrare veri, così falsi da essere disabitati di notte.
Mi hai spiegato che non puoi restare ma che vorresti, e subito dopo mi hai spiegato, senza volerlo, che è solo più facile, che lei non ti indaga dentro come faccio io. Hai eluso il fatto che i legami sono solo più forti, ma ho dovuto capirlo da sola. Stabili e senza pretese di verità, una camicia stirata in cambio di un dondolo aggiustato in giardino, un telefono non controllato in cambio di un rientro certo a casa. E che l’amore è potente lo hai detto, ma è una potenza anarchica che richiede la fatica di essere imperfetti e veri, senza le facciate dei palazzi reali dei parchi di divertimento. Le ho sgretolate le tue costruzioni, ho lasciato che mi crollassero addosso e dentro e ovunque e non ti ho chiesto aiuto anche se stavamo vicini, di fronte, seduti a tavola a bere vino, solo piangevo mentre tu mi raccontavi del tuo ultimo lavoro e non vedevi niente. Quando ti è squillato il telefono hai risposto con una voce dolce di sensi di colpa, il mio vino era più amaro e anche l’uomo affacciato al balcone di fronte sembrava saperlo. Poi ti ho cacciato via e non eri pentito di niente.
La bottiglia dell’acqua non l’abbiamo nemmeno toccata, il mio foulard di seta è legato alla sedia dove l’hai messo dopo avermelo tolto per baciarmi il collo, i fogli del tuo nuovo lavoro non li ho letti, sono volati via quasi tutti, ce n’è rimasto uno incastrato nella ringhiera, batte un tempo che rende la forza del vento. La tovaglia è coperta della cenere delle tue sigarette, non ho avuto la forza di farti smettere; hai lasciato un pezzo di torta nel piatto, non sei mai andato pazzo per i dolci. Avevo un regalo da darti ma non ho fatto in tempo, ho dovuto cacciarti via prima. Domani ho una scadenza importante a lavoro e, questa volta, non ce la farò anche se, lo so, mi scriverai un messaggio per dirmi che andrà bene. Avevo chiesto il tuo aiuto ma ti è sembrata una cosa che potessi fare da sola. Come quella volta in cui ero in ospedale e l’anestesia mi aveva quasi ammazzato, mi avevi detto che non era necessario che tu ci fossi, c’era già mia madre con me.
Te lo ricordi? Era il giorno della presentazione del tuo libro, lei era con te e anche Michela, la tua ex, venne ad applaudirti. Per tre giorni mi raccontasti l’emozione che ti aveva dato la sua presenza, e avevi discusso a lungo del valore che ha l’amicizia che dopo tanti anni sa prendere il sopravvento sulla tua incapacità di restare. Con me sarà diverso, si vedranno anche tra dieci anni le crepe che hai lasciato. Se saremo fortunati, da qualcuna verrà su qualche fiore non particolarmente bello come quelli che crescono nel cemento spaccato sul mio terrazzo. Passerò il coltello nella crepa per estirpali, come faccio sul terrazzo affinché sembri pulito. Perché era questo che volevo con te, un terrazzo pulito. Senza crepe nel cemento che inghiottono le altre vite che hai, senza i fiori che ci crescono dentro a coprirle.
Eugenia Mariagrazia Cavallaro
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