Un abbinamento poco usuale è alla base de La Venere Dobner di Antonio Villani, ventottenne napoletano, già da tempo dedito alla scrittura di racconti brevi, ora alle prese con il suo primo romanzo edito da Eretica Edizioni: pittura fiamminga, Trieste e Napoli: un professore di storia dell’arte, un avvocato e un camorrista.
La profonda diversità degli “ingredienti” della storia crea un tessuto narrativo davvero denso, tanto che in non moltissime pagine l’autore propone una quantità enorme di spunti (soprattutto visivi), temi e passioni.
Sebbene Saverio mostri tutta la sua napoletanità, lo sfondo principale delle vicende è una Trieste austera e al tempo stesso brulicante di vita, ma anche piovosa, cupa e poco rassicurante, una città che il protagonista non sembra mai metabolizzare, “il luogo giusto dove conservare un segreto”; così viene definita e così, senza molta difficoltà passa la sua immagine tra queste pagine.
La Venere Dobner è un giallo? Non saprei rispondere, è allo stesso tempo credo che il romanzo sfugga a qualsiasi classificazione grazie alla diversità e quantità dei suoi temi. In alcuni tratti sembra di essere di fronte a un piccolo saggio di storia dell’arte che vuole raccontarci qualcosa su un periodo artistico forse troppo trascurato; è un caso che Saverio voglia chiamare il saggio a cui lavora allo stesso modo del testo che ci ritroviamo a leggere? Mi piace pensare di no.
Però il tutto non si esaurisce in una celebrazione dell’arte, sebbene, a mio avviso, l’autore giochi molto con questo tema per nascondere, nei particolari, piccole tracce di una biografia interiore, che fa passare parti di sé attraverso pennellate e tele di secoli fa. Oltre questo credo ci sia molto altro: quello che una “semplice” vicenda di un quadro smarrito nei secoli sembra nascondere è forse una riflessione molto più ampia; Saverio Pontecorvo non crede assolutamente nella linearità degli eventi, nella possibilità che vi sia un racconto chiaro, semplice e lineare, piuttosto pensa che ogni cosa non possa che essere confusa dalla mano dell’uomo… e la vicenda della Venere Dobner lo dimostra.
Ma non è detto che tutto questo sia un male, poiché alla fine di questa storia il protagonista dovrà abbandonare le sue rigide posizioni e accettare le contraddizioni insite nella bellezza, che essa provenga dalle mani di un falsario o di un grande genio vissuto secoli fa, che si chiuda in una cattedrale triestina o in un pomodoro odoroso della propria città natale. D’altronde ̶ come si chiede uno dei personaggi – può essere napoletano un appassionato di pittura fiamminga? È questo ciò che ho più apprezzato di questo romanzo: l’aver messo insieme contraddizioni, grandi riferimenti culturali e un po’ di sana ironia, aver usato uno stratagemma brillante per “nascondere” una riflessione più ampia. Il tutto è tenuto insieme da una scrittura sempre pungente, ricca di spunti e piccole battute capaci di colpire nel segno e far ritornare a riflettere.La scrittura di Villani “non è un racconto di Borges” (citando il romanzo stesso) ma sa essere profonda in altri sensi, in primis sapendo tenere assieme tutti i contrasti che l’autore vuole mostrarci, perché credo sia abbastanza complesso far passare il proprio mondo interiore e il proprio sentire attraverso piccoli dettagli di un quadro del Cinquecento.
Anna Giordano
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