Dev’esserci incappato anche Paolo Capponi, scrittore poco più che trentenne residente nel capoluogo emiliano, che ha fatto di questa Bologna, e di via Saragozza, il ricettacolo delle sue ultime immaginazioni oscure e raccapriccianti. E Oscura è anche il nome della collana di cui fa parte il romanzo di cui stiamo parlando, Kurnugia, pubblicato da Antonio Tombolini Editore, con un titolo che già un po’ solleva il fascino del mistero e il brivido dell’horror. Kurnugia è parola ambigua, pur essa antichissima, tanto quanto possono esserlo le divagazioni fantasiose dell’uomo sulla vita oltre la morte, ma sarebbe improprio dire che rimandi a un qualche dove conciliabile con l’idea più diffusa di aldilà. Non diremo altro, per non togliere al lettore neanche un grammo in più del piacere della scoperta, se non che, da una civiltà perduta e da un luogo lontano, l’autore trasporta il mito nella più vicina Europa e lo incastona nella sua storia recente, per poi avvicinarlo ancora una volta, adagiandolo nella Bologna nobiliare del primo Novecento, e infine in un’agiata famiglia borghese dei giorni nostri.
Va però detto, a questo punto, che Capponi non agita le mani nel passato, illudendosi di spacciarlo per presente solo cambiandogli il domicilio. L’immaginario su cui fonda l’ossatura del romanzo è quello tradizionale, di un vecchio edificio in disuso eternamente legato alle famiglie che lo hanno abitato. Sembrerebbe una normale storia di fantasmi e di case infestate, ma è più complesso di così. Anche stavolta, lasciamo da parte la tentazione di spiegarvi perché i fantasmi non c’entrano, e perché non è la casa in sé il problema. C’è ancora dell’altro, comunque, che val la pena di aggiungere, giacché abbiamo toccato il tasto del sovrannaturale: per quanto Kurnugia schieri in campo le figure più canoniche dell’universo orrorifico – al limite dello splatter – dagli arti spezzati e carni lacerate al sangue in abbondanza, dai cadaveri putrefatti alle morti innaturali, è la violenza verbale che le accompagna a incrementarne la capacità di repulsione. Una violenza che sancisce definitivamente quella deformazione del familiare e del rassicurante in cui sta la vera natura spaventevole del romanzo. Dei sei personaggi principali (con l’eccezione dell’ultimo in ordine di apparizione, cui è riservata una parte relativamente piccola), non ce n’è uno che non viva con insoddisfazione e risentimento il proprio ruolo di figlio, di compagno, di coniuge, e quando la loro paura e la loro rabbia vengono fuori, nonostante gli anni e i chilometri li separino dall’infanzia e dalla famiglia, si manifestano nella loro frustrazione in quanto figli ed eredi. Se c’è qualcosa che fa paura, in Kurnugia, non è tanto l’ignoto che bussa alla porta per inghiottirci – o almeno non solo quello – bensì la rivolta furiosa contro il padre (e la madre), che è poi rivolta contro sé stessi e contro la propria condizione sociale, fisiologica e psicologica.
Un’ultima nota: non abbiamo ancora fatto cenno alla trama di questo romanzo, perché crediamo che aggiungere, per esempio, che tutto ha inizio con Cosimo che prende casa a Bologna per volere della famiglia e alloggia in un palazzo antico, nel quale tempo addietro sono accaduti eventi misteriosi, non dica veramente granché sulla sua natura. Al contrario, il fatto che la sbandierata passione dell’autore per una certa serialità televisiva lo abbia condotto a un racconto quasi episodico, marcatamente frammentato, destinato a consumarsi rapidamente, oltre che di genere, e continuamente sospeso al punto giusto per invogliare a proseguire, ci pare un’indicazione più gustosa per orientarsi nella lettura.
Andrea Vitale
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