I classici, o il requisito per essere scrittori
È molto raro che sui giornali infiammi una querelle letteraria. Il mondo della cultura – e ancor più quello di ambito librario – sopravvive di solito ai margini dell’attenzione del pubblico e favorisce una cerchia ristretta di lettori.
Accade però che il 19 agosto, sul Fatto Quotidiano, esce un articolo di Francesco Musolino apparentemente innocuo. Viene chiesto a dieci scrittori under 40 di confessare un grande classico che non hanno letto.
L’articolo non ha naturalmente valore statistico, ma può essere interessante per notare alcune ricorrenze di classici non letti (o non ancora letti) da autori di una certa generazione. Dopo questo articolo si è inaspettatamente scatenato un putiferio. Andrea Caterini risponde con un articolo su Il Giornale, e poi ancora Silvia Truzzi e Crocifisso Dentello sul Fatto. Sui social si discute di libri, classici, si confessano libri non letti, si attaccano quegli autori e la loro dignità di scrittori.
Il punto sembra questo: Come si può essere scrittori senza aver letto tutti i classici?
A ciò si aggiungerebbe una seconda domanda: Come ci si può vantare di non aver letto Joyce, Proust o Musil?
Se da una parte pare che la questione sia stata ingigantita ben oltre la sua effettiva valenza, dall’altra è evidente che fra lettori e addetti ai lavori c’è una certa idea di scrittore che non può essere delusa nemmeno da una singola mancanza. Pare che non sia possibile scrivere libri se non si è letta la Recherche, non si può essere scrittore senza l’Ulisse o L’uomo senza qualità. A me, francamente, pare una sciocchezza. Siamo d’accordo che la lettura dei classici è fondamentale e – aggiungerei – anche uno studio della letteratura, oltre alla semplice lettura dei capolavori mondiali. Ma la mancanza di uno o più classici, per quanto importanti come l’Ulisse, non può rappresentare un veto alla professione, non se in compenso innumerevoli altri classici sono stati letti. Non se, mancando l’Ulisse, abbiamo letto i Dubliners. Non se mancando i Fratelli Karamazov abbiamo letto Memorie del sottosuolo o L’Idiota. Ma quand’anche mancasse totalmente un autore classico, perché non nelle corde di questo o quell’autore contemporaneo, dove sarebbe – davvero – il problema? Se il nostro immaginario pulsa per Kafka e non per Musil, chi ci obbliga a leggere entrambe le cose?
In quanto autori non siamo e non possiamo essere omnicomprensivi. Ognuno ha dei padri, degli zii, dei cugini poco considerati e dei parenti che proprio non possiamo sopportare. E altri parenti in America, magari, che non ci interessa conoscere. Ma abbiamo comunque una famiglia numerosa. Siamo davvero qui a fare una classifica dei cento classici più importanti e metterla come lista di sbarramento a chi vuole fare lo scrittore? Crediamo davvero che senza Joyce non ci sia letteratura?
Forse non leggiamo Joyce, ma leggiamo Conrad. Forse non leggiamo Fitzgerald ma leggiamo Dos Passos. Forse non leggiamo Manzoni ma leggiamo Verga. Ogni autore costruisce il proprio immaginario, ogni lettore ha i propri classici. Un amante dei racconti potrebbe annoiarsi con i romanzi da mille pagine. Che importa? Leggerà altro, leggerà altri classici, plasmerà la propria cultura letteraria in base a quella che è la sua indole e ai suoi gusti. Non è un crimine mortale non leggere l’Ulisse di Joyce per uno scrittore, se legge altro.
Una nota a margine per la seconda domanda. È vero che nell’articolo di Musolino qualche uscita autoriale non è stata felicissima, forse a causa del ristretto spazio concesso a ogni dichiarazione. Ma bisogna liberarsi del velo della vergogna e parlare. Non dev’esserci riserbo nel dire: “No, non ho letto Proust”. E non è un vanto, è una constatazione. È dire la verità, è dire – magari – quel tipo di libro, la scrittura di quell’autore, non mi interessano. Mi interessa altro, leggo ogni giorno altro, e ogni giorno scrivo, poiché è quello il mio mestiere, di quello rispondo. Non di cosa ho letto o non ho letto, non di cosa le persone credono io debba leggere.
Maurizio Vicedomini
Credo che la risposta migliore sia sempre: “Non ancora”.