Perché la letteratura non basta? Il caso Ferrante
Quasi non si parla de L’amore molesto finché Mario Martone non ne fa un film. Lo stesso accade per I giorni dell’abbandono e la pellicola di Roberto Faenza. Infine, nonostante il boom editoriale de L’amica geniale, ancora una volta gli articoli e le interviste fioccano in vista dell’uscita di una serie tv ispirata alla tetralogia delle due amiche napoletane, Lila e Lenu, prodotta da HBO e Rai. È il caso Ferrante, la scrittrice che ha rivoluzionato il racconto di Napoli adottando una prospettiva tutta personale, vera e rabbiosa.
Elena Ferrante, è una scrittrice dall’identità misteriosa che ci parla di una Napoli fatta di Rioni e dialetto stretto, di pochi eletti destinati a un’emancipazione sociale e culturale, di violenze domestiche e da strada. Sul perché un’autrice così talentuosa abbia deciso di non mostrarsi mai pubblicamente, si è più volte discusso, ma le motivazioni sembrano più che ovvie.
Oltre che per il tentativo di sottrarsi all’invadenza della macchina mediatica, Elena Ferrante sceglie l’anonimato come protezione da quella realtà cruda, violenta e, inevitabilmente, compromettente che leggiamo nei suoi romanzi. Le storie di Ferrante non sono che scene di vita vissuta, certo rimodellate e rimescolate, ma non così distanti da una realtà di cui ci si potrebbe facilmente vergognare. La scrittrice non si risparmia su niente, la sua analisi della psiche e dell’animo umano non ha rispetto per alcuna regola sociale o pudore. La sua è una reale letteratura del “vero”, come pochi autori fino a ora hanno realizzato.
La domanda su chi si celi dietro la firma di Elena Ferrante ha però capovolto le intenzioni dell’autrice di lasciar spazio alle proprie storie e di esprimersi solo attraverso la scrittura. A oggi, un buon numero di lettori si avvicina alle opere di Elena Ferrante affascinato da e convinto di poter svelare il mistero. In un’intervista con Ruth Joos per il quotidiano olandese De Standaard, Ferrante scrive: “Gli autori, in quanto autori, abitano dentro i loro libri. Lì si mostrano con la massima verità […]”. Non ha quindi importanza chiedersi chi sia Elena Ferrante mentre si legge un suo romanzo. Elena Ferrante è Elena Ferrante, nulla di diverso da ciò che leggiamo.
Ma perché anche i più appassionati lettori non riescono a non cadere nel tranello del mistero, a sfuggire alla tentazione di ricostruire un’identità, un’immagine, di donare forma e carne a una semplice firma? Perché la letteratura non basta?
Elena Ferrante è un’autrice completa, scrittrice matura e scrupolosa, con una prosa raffinata, curata, intelligente, ricca, un immaginario fuori dal comune, pieno di sapere e di inventiva. L’unica cosa che le manca è un corpo, ma a cosa serve, in realtà? È la malattia del nuovo millennio, l’ossessione di dar forma e colore a tutto. Di guardare prima di credere. Il senso della vista, così riduttivo eppure ormai così al centro di ogni percezione cognitiva. È il secolo delle immagini, ogni fame umana si sazia con luce e colori.
È illuminante, in quest’ottica, la risposta della stessa Elena Ferrante a un’intervista di Valentina Desalvo per La Repubblica del 3 luglio.
Alla domanda della giornalista: “Quale differenza c’è – se c’è – tra il rapporto che lega un lettore a un libro e quello di uno spettatore con una fiction?”
Elena Ferrante risponde: “Non c’è un’unica differenza, ce ne sono parecchie. Qui ne segnalo una abbastanza banale, ma importante. Ai lettori è richiesta una collaborazione molto più impegnativa di quella che è richiesta allo spettatore. Si tratta ovviamente in entrambi i casi di fruitori di finzioni. Ma ciò che noi “vediamo” e “sentiamo” e “tocchiamo” leggendo un libro è indotto da una potente stilizzazione del reale: i ventuno segni dell’alfabeto. Sono quelli che attivano i nostri sensi, evocano paesaggi, corpi, voci, emozioni, pensieri, etc. […] Per quanto la scrittura definisca con grande precisione ogni cosa, essa lascia per sua natura sempre dei vuoti che il lettore colma con la sua esperienza e la sua immaginazione. Anche lo spettatore, naturalmente, è costretto a uno sforzo di decifrazione e deve collaborare perché lo spettacolo funzioni. Ma il cinema, la televisione hanno dalla loro un’apparente immediatezza di consumo, una “facilità” che non appartiene all’alfabeto. Lo spettatore paga, d’altro canto, quella fruizione meno impegnativa con la partecipazione a un gioco più costrittivo. Se ogni lettore, mettiamo, ha alla fine la sua personalissima Bovary, anche a dispetto delle strategie compositive di Flaubert, uno spettatore non può che subire il corpo dell’attrice scelta per la parte, con la sua voce, la sua gestualità. […]”
Questa “immediatezza di consumo” e questa “facilità” che ormai appartengono a ogni ramo dello scibile o dei rapporti sociali, sta indebolendo il potere delle parole e della buona letteratura. Tutto ciò che, nell’era dei tweet, rompe gli argini dell’immediatezza finisce per essere mandato su con un gesto dell’indice – o del pollice, a seconda delle abitudini.
Il fatto stesso che alcuni siti di quotidiani indichino in alto i minuti o, addirittura, i secondi di lettura è un sintomo di questo richiamo disperato a non perdere il piacere di leggere, informarsi, conoscere oltre l’ingannevole uso di immagini e singole parole scandite a ritmo di hashtag.
Quest’articolo si aggrappa a questa convinzione, all’ennesimo richiamo morale a non allontanarsi mai dalla lettura. La fotografia e il cinema sono arti nobili tanto quanto la letteratura, ma non sono la stessa cosa, non stimolano gli stessi sensi, non emozionano le stesse parti del cervello. Dentro un libro ci sono persone, case, montagne, torri, prati così come la nostra mente – e nessun altro – è capace di immaginare. Sono molto legata alle mie Lila, Lenu, Delia, Olga, Leda – rispettivamente le protagoniste di L’amica geniale, L’amore molesto, I giorni dell’abbandono, La figlia oscura (tutti Edizioni e/o) – e alla donna che, nella mia fantasia, incarna Elena Ferrante. Non sento la necessità di incontrare quest’autrice oltre le sue parole così ben assemblate e ho paura di ritrovare tutte le altre in una donna che non era la stessa che avevo immaginato. Finisco per sovrapporre le immagini – la mia personale e quella dello schermo -, per sminuirne la forza e l’incanto (come mi è successo in passato con Harry Potter, Games of Thrones, i romanzi di Margaret Mazzantini e molti altri).
Il cinema è un piacere a cui non mi sottraggo mai, anche se so che nel caso di film ispirati a romanzi che ho amato dovrò rinunciare a qualcosa. Ma la vecchia lezioncina che ripropongo e che non smetterò mai di propinare è: “Leggete!” sempre, anche quando non avete tempo (che poi è solo una scusa, si sa).
La letteratura non basta, è vero, ma non se ne può fare a meno.
Anna Fusari
Bellissimo articolo, ho da poco finito la saga de L’amica geniale che mi è piaciuto tantissimo. Ricordo quando ci fu la corsa alla scoperta dell’identità della Ferrante, fu qualcosa che m’indignò molto. Questa cosa di non rispettare la volontà dell’autrice, questo ficcare il naso dovunque non è una cosa che mi piace e non dovrebbe essere una priorità per un lettore, che dovrebbe invece leggere la vita di un autore tra le righe dei suoi libri, senza per forza dover svelare misteri metafisici.