Paolo Conte e la saga del Mocambo

Sono qui con te sempre più solo è incentrata su una consolazione al sapore di caffè. Appare nel primo album solista, chiamato semplicemente Paolo Conte. È il 1974. Forse l’autore non lo sa ancora, ma sarà la prima canzone di una serie (la cosiddetta saga del Mocambo) in cui si narra l’avventura di un uomo alle prese con un bar che un tempo era stato suo. La voce di ruggine del cantautore disegna nel primo capitolo una storia in cui lui e lei si scrutano da vicino (“Sono qui con te sempre più solo / sento crescere tutta l’estraneità / di due messi lì in un brutto tinello marron”). Non parlano. Lui sente di essere giudicato da lei per ogni cosa. Per questo forse, da tempo ha smesso di vivere, eccetto che per i ricordi.

Nel successivo e omonimo Paolo Conte, album del 1975, quell’uomo decide di ritagliarsi qualche attimo di fuga. In Luna di marmellata fa un lungo viaggio per un appuntamento d’amore illegale. Entrambi devono aver passato la cinquantina; l’ebbrezza del tradimento si consuma – piuttosto che nella furia di un fin troppo rimandato amplesso – nella riproposizione dei gesti consunti per fare della stanza d’albergo una casa (“E ti prepari ad abitare questa stanza come fosse una casa / e io che aspetto mentre metti nei cassetti la tua roba e anche la mia / e al di là della finestra c’è una luna strepitosa che ci guarda con tristezza”). Piuttosto che fare all’amore, si sorride all’idea di un ultimo amore, come fosse la marmellata da rubare.

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Questi uomini sono stanchi, disincantati. Le donne? Tempestose, umorali, sottilmente vendicative, “algebriche e pensose” (La donna d’inverno), oppure fatali, mentre al Politeama la Diva si fa attrazione per lo stanco desiderio di uomini invecchiati (Schiava del Politeama). Conte è languidamente malato di misoginia? Scrive Alfredo Miccio in “Ascoltando Paolo Conte”: «Dopotutto non si può amare totalmente una donna, senza odiarla anche, poiché nella sua presenza si riconosce l’ineluttabilità del destino, nei suoi occhi di ghiaccio e di fuoco il mistero della vita».

Il destino tragico di un uomo è quello di farsi “tagliare” come si taglia un albero secolare. Uno degli operatori in questa opera di verità, è appunto la donna. Se la donna in virtù della “castrazione”, è da subito relativamente a suo agio nei vari agoni dell’esistenza, all’uomo tocca un lungo giro per pervenire alla verità che la sua compagna conosce da subito. In questa polverizzazione a cui va soggetta la nostra vita, che di fatto si misura nello sgretolamento del senso (ove venga evocato, sempre più mostra la sua corda lasca), la donna non può che trovare posto proprio lì dove il senso manca, dove è inadeguato a spiegare dolore e privazione, lì dove è possibile solo viverli.

L’uomo del Mocambo è fissato al risentimento per quel “mostro gentile”, incapace di provare noia, di assumersi la vacuità dell’esistenza (incarnandola, non può metterla in parole, ma solo farne un lungo commento), fissata nell’attimo sempre uguale di un quotidiano ripetuto, in cui ciò che cade è l’eros. Quella compagna disprezza il piccolo bar, forse perchè ritenuto responsabile della sottrazione di suo marito alle proprie “amare” attenzioni, di cui ha necessità giornaliera. La donna è piena di “banalità”, contro la pressione delle quali, non resta che “chiudersi in sé sempre di più”.

Il caffè col curatore diviene allora l’occasione di fermare il tempo, di chiuderlo in un attimo dilatato a proprio piacimento, almeno fino a che il gusto di quel nettare nero indugi sul palato. É il palato che sostiene il tempo. Spoglia le parole, fino a renderle sensuali nel loro “non dire più”, nell’arresa e ultima consapevolezza che niente più si può dire, se non condividere questa negazione, questo scrutare la morte con i gomiti appoggiati al banco.

L’uomo del Mocambo è sempre scosso tra Reale e Sogno. Nel 1981 Conte pubblica l’album Paris milonga, al cui interno troviamo il pezzo Blue Haways, in cui possiamo immaginare il cantautore astigiano sorpreso a fissare così intensamente l’immagine della sua mancanza (la donna all’altro capo del “tinello marron”), da trasfigurare il luogo e sé stesso, cullato dal chiacchiericcio asignificante e incantatorio di sua moglie: “Cercavo una donna e ho trovato una commedia / era da finire in braccio alle chitarre hawaiane…”.

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Ma Blue Haways – Conte cita Allan Poe – è un sogno nel sogno (“Blue Haway, a dream in a dream”). Siamo prigionieri dei riflessi immaginari che – come dentro ad un luna park – moltiplicano gli specchi, raddoppiando il senso di prigionia. Di fronte a tante parole inutili, urtato nella pancia molle della propria mortificazione, all’uomo del Mocambo non resta che distogliere lo sguardo dal volto di Medusa di sua moglie: “Io non sapevo risponderti perché ascoltavo la pioggia”.

In La ricostruzione del Mocambo, il nostro eroe sembra avere uno scatto d’orgoglio (“Dopo le mie vicissitudini / oggi ho ripreso con il mio bar / dopo un periodo di solitudine / il Mocambo eccolo qui tutto in fior”). Ora convive con un’austriaca, divide con lei un altro “tinello marron”. Lei non parla italiano, lui non parla tedesco, ma la difficoltà di comunicazione evidentemente è un sollievo, forse perché da subito predispone al perdono. L’inconprensibilità delle rispettive lingue di fatto obbliga uomo e donna a riconoscersi per ciò che si è: individui nudi, disarmati, candidamente in cerca di un amore che non è possibile reclamare come fosse un diritto. Il segno d’amore non è la parola (sempre “difficile”, sempre amara), ma la condivisione di un silenzio significante in un universo ridotto a tinello.

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Al bar il mediatore di questa verità è il caffè. Trasforma il risentimento in gusto, per “questa sporca vita, che non ha mai pietà, che non è mai finita” (La sporca vita), e per la nostalgica memoria del tempo in cui la propria energia fallica poteva mordere il mondo, sedurre, conquistare, contare le donne. Gustare un espresso è bere il proprio sangue, in memoria di un lento destino di perdita, di cui la donna è il più sublime e spietato degli operatori simbolici. Cosa si può dire di più? Se si porta in un locale questo peso dell’anima (uomo o donna non fa differenza), nessun barman potrà consolare. Il meglio che può accadere è bere un buon caffè, da accompagnare con un silenzio “austriaco”.

Vincenzo Carboni

Vincenzo Carboni nasce a Roma nel 1963. Dopo avere completato studi universitari in Servizio Sociale, approfondisce temi di psicanalisi, teatro e linguaggio video, campi da cui attinge per attuare progetti di educazione alla salute. Scrive di teatro, cinema e critica letteraria, proseguendo allo stesso tempo studi disordinati. Gli esami – si sa - non finiscono mai...

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