Che cosa leggiamo quando leggiamo Paolo Cognetti?
Mio padre aveva il suo modo di andare in montagna. Poco incline alla meditazione, tutto caparbietà e spavalderia. Saliva senza dosare le forze, sempre in gara con qualcuno o qualcosa, e dove il sentiero gli pareva lungo tagliava per la linea di massima pendenza. Con lui era vietato fermarsi, vietato lamentarsi per la fame o la fatica o il freddo, ma si poteva cantare una bella canzone, specie sotto il temporale o la nebbia fitta. E lanciare ululati lanciandosi giù per i nevai.
Quando sul tavolo delle nuove proposte si sceglie un libro di cui non si è mai sentito parlare, la prima a farsi notare è sempre la copertina. Inutile credere al vecchio detto che l’abito non fa il monaco: l’abito dei libri è la loro prima presentazione. Se la copertina ci piace, il libro ruota di centottanta gradi per mostrarci la sua quarta con la sinossi, qualche avviso della critica e una sintetica nota biografica. Se anche questa ci convince, si passa alla mossa definitiva: leggere la prima pagina.
È da quell’incipit tante volte lasciato al caso che dipende l’acquisto di un libro nuovo, dalla capacità dell’autore di catapultarci direttamente in una storia di cui desideriamo sapere il seguito, di giocare con le parole con un’abilità tale da lasciarci ammirati, sulle spine, incuriositi. Questo è, a mio avviso, uno dei migliori pregi della scrittura di Paolo Cognetti: inchiodare il lettore alla pagina con una prosa studiata e accattivante, cucita intorno alle storie come un abito di alta fattura, elegante e senza sbavature o inutili fronzoli retorici.
Paolo Cognetti è il vincitore del Premio Strega 2017, un riconoscimento artistico meritato e motivato. Con Le otto montagne (Einaudi 2016), romanzo con cui Cognetti si guadagna lo Strega, il giovane milanese – classe ’78 – celebra la propria maturità di scrittore, suggella un stile personale e inconfondibile e si colloca tra le migliori penne italiane del nostro secolo.
Nel mondo della letteratura contemporanea, Paolo Cognetti si fa conoscere soprattutto per la forma breve, o “semi-breve”. Sofia si veste sempre di nero (Minimum Fax 2012) è una quella che si potrebbe definire una forma “semi-breve”: dieci racconti che ruotano attorno ad un’unica storia, quella di Sofia Muratore. I racconti ne ripercorrono la vita in tutte le sue fasi – infanzia, adolescenza, maturità – e tutte le sue storture, ricostruendo un personaggio complicato, spigoloso nel carattere e nel corpo. Una vita, quella di Sofia, che non smette di procurarle nuove sofferenze. La prima, quella che complica la storia fin dall’inizio, la decisione dei genitori di considerare la gravidanza un guasto a cui porre rimedio con un “matrimonio riparatore”.
Sono, invece, vere e proprie short stories, quelle di Manuale per ragazze di successo (2004) e Una cosa piccola che sta per esplodere (2007), entrambi editi da Minimum Fax. Il primo libro è una raccolta di sette racconti di e su donne di successo. Un successo che non ha niente a che fare con la carriera, i soldi, gli uomini, ma con una propria autonomia di pensiero, con un carattere netto, indipendente. Cognetti mostra in questa raccolta una sensibilità speciale nella narrazione da un punto di vista femminile o nel ritratto di donna dalla prospettiva maschile. Questo “successo” che non ha niente a che fare con la prevaricazione sull’altro sesso, con una rivendicazione femminista di diritti, ma è la quotidianità di donne vere, senza memorabili imprese da Heroides virgiliane.
Differenti sono i protagonisti della seconda raccolta: adolescenti in preda ai problemi più o meno gravi legati alla loro età, a cui si aggiungono preoccupazioni e messaggi confusi del mondo degli adulti. Ancor più che in Manuale per ragazze di successo, Cognetti si immerge nella psicologia complessa dei suoi personaggi, giovani uomini e donne, bambini e bambine cresciuti a cui riesce a regalare storie intense e intrise di quella inconsapevole e goffa malvagità di cui solo gli adolescenti possono essere capaci.
“Ama i tuoi personaggi e poi fai quello che vuoi”, confessa l’autore a Daniela Monti in un’intervista per Il Corriere della sera. Questo è il, o uno dei, segreti della scrittura di Paolo Cognetti: amare ciò che si crea. Sarà per questo che è facile entrare nei suoi personaggi, capirne i pensieri e lo spirito senza che la penna li espliciti.
Se alcuni dicono che la forma breve impedisce per sua natura di sondare la profondità psicologica dei personaggi, è anche vero che la “forma lunga”, il romanzo, non mette alcun freno alla narrazione e che chiunque sia al comando della penna possa sentirsi libero di scavare, aggirare, contemplare e descrivere ogni cosa. Questo passaggio da una forma all’altra non avviene in modo così evidente nella scrittura di Cognetti. Le otto montagne si presentano, infatti, più come un lungo racconto che come un romanzo: la scrittura non è mai esplicita su emozioni, ragionamenti, sentimenti dei protagonisti. Tutto emerge dalla storia, dalle azioni e dalle decisioni.
I protagonisti del romanzo sono Pietro e Bruno. Il primo è un ragazzo nato tra il rumore e lo smog del traffico di Milano, il secondo tra i pascoli e l’aria limpida di Grana. Terzo metaforico protagonista è la montagna, grembo materno per i due ragazzi – poi uomini – destinati a diventare fratelli d’adozione. Un bildungsroman fatto di torrenti, larici, pietraie, laghi, ghiacciai. Quello di Pietro e Bruno è un cammino in perenne salita, per conquistare non la vetta, ma la propria altezza ideale.
In montagna Pietro ha il tempo di ritrovarsi, dapprima d’estate durante le vacanze con la famiglia, poi ogni volta che ne sente l’esigenza. Il tempo, in alto, a duemilacinquecento metri sopra Milano, sembra tornare indietro. Le stagioni della montagna sono sempre in anticipo rispetto alla valle e il corpo sembra più giovane e forte lontano dall’annichilimento della città.
Di cosa parla Le otto montagne? È un romanzo di formazione? Sì e no. È una storia di amicizia? Anche. È un desiderio di evasione? Tra le righe. È un romanzo che dice tante cose senza parlar troppo. Che non si esprime attraverso le parole, ma grazie all’uso che se ne fa.
Che cosa leggiamo quando leggiamo Paolo Cognetti? C’è Carver, tanto Carver, con il suo seguito di scrittori statunitensi del secolo scorso, amanti delle quotidianità di provincia senza eroi. C’è uno scrittore che ha dato il meglio di sé già dai primi racconti e che con Le otto montagne celebra la sua maturità artistica. C’è una letteratura ibrida, a metà tra l’Italia e il forte influsso americano. C’è una promessa mantenuta, una lettura a cui è difficile sottrarsi e un giovane autore che finalmente fa parlare di sé.
Anna Fusari