La vita com’è: quando sporcare i fogli vale la pena
Dopo aver letto la prima pagina, una specie di breve flusso di coscienza (con tanto di parolacce) della narratrice bloccata nella sua auto che inveisce contro il piccione che le intralcia il passaggio, mi sono detta “se tutto va bene, questo libro mi piacerà molto”. Ed è andato tutto bene.
Se tutto va bene significa: se la storia è costruita bene, se è credibile quand’anche incredibile, se una che parla con un piccione alla prima pagina riesce a mantenere quel livello per tutte le circa 220 pagine, se lo stile è bello, se non hai la sensazione che in quinta elementare tu avresti potuto scrivere la stessa cosa (senza per di più avere la pretesa di farti pubblicare da un editore), se c’è quel minimo di poesia che dev’esserci in tutte le cose scritte perché valga la pena di aver sporcato un foglio.
Grazia Verasani è una scrittrice, drammaturga e musicista nata a Bologna nel 1964. Ha fatto anche la doppiatrice e infatti non c’è traccia nel suo italiano di quel bell’accento che sa di tortellini fatti in casa, di domeniche a pranzo in famiglia, di gente simpatica (non si pensi che sto riducendo l’Emilia Romagna a un tortellino, per carità). Nelle foto sul suo sito ha un rossetto deciso e una certa indecisione nel colore dei capelli. La vita com’è è il suo quindicesimo romanzo, fresco di stampa, edito da La nave di Teseo.
Non volendo fare spoiler, o almeno non più di quanto ne faccia la quarta di copertina, che ne fa abbastanza, possiamo raccontare che la storia inizia quando un giovane scrittore contatta la narratrice, scrittrice affermata ma un po’ in crisi di ispirazione e convinzione, e di una ventina d’anni più vecchia di lui, per dichiararle la sua ammirazione, chiederle di leggere il suo manoscritto, e più se affinità. Da lì inizia un rapporto abbastanza movimentato (che la protagonista, in realtà, più che altro subisce, vista la testarda resistenza che oppone agli assalti del suo ammiratore). Je t’aime. Moi non plus.
È una divertente opposizione caratteriale, generazionale e, direi soprattutto, di atteggiamento verso la vita. Neanche a dirlo: vitale, ottimista, fiducioso, lui; disillusa, amara, realista, lei.
L’autrice ci risparmia la storia già vista e rivista dell’incontro con un giovane che ti risveglia alla vita, che ti contagia l’entusiasmo che con gli anni ti sei perso per strada, che cancella la stanchezza e le frustrazioni, e ti regala una seconda giovinezza: ce lo risparmia e la ringraziamo. Non che non possa succedere, ma qui è altro. È un’altra storia. Tant’è che la protagonista non è la signora un po’ sfiorita che a contatto con questo bel fiore giallo (cioè biondo) si trasforma completamente cercando di ringiovanire per meritare la compagnia di lui. Ma è una donna che a contatto con lui, e quasi senza accorgersene, finisce per riflettere, e chiedersi se ha davvero fatto bene a scaricargli addosso tanta (autentica o ostentata) amarezza, e finisce anche per ritrovare la voglia di scrivere.
(Che poi, cinquant’anni è un po’ presto per sentirsi vecchi).
Ed è infatti, anche, un libro che parla di libri, di gente che legge, che scrive o che vuole scrivere. Non è certo il primo che lo fa, ma l’umorismo realista con cui si guarda al mondo (complicato) dell’editoria, alla difficoltà di accederci e restarci, alla puzza sotto il naso, a certi atteggiamenti ridicoli di chi si crede una star per aver venduto due copie, di questo teatrino con i suoi codici e i suoi copioni già scritti, l’umorismo con cui si guarda a tutto ciò, dicevamo, è estremamente intelligente. Fermo restando il sacrosanto diritto, dico io, di volerne far parte, di questo teatrino, se si sente di averne la capacità e se è ciò che si desidera, perché, dico io, si ha il diritto di provare a essere felici.
Dal punto di vista dello stile il libro è di altissima qualità. È forse il suo intendersi di musica che dà all’autrice un ottimo senso del ritmo nella scrittura, e soprattutto nei dialoghi. È forse la sua esperienza di teatro che la rende capace di disegnare e mettere in scena dei personaggi ben caratterizzati.
Le metafore sono belle e inattese, le immagini eloquenti, le idee profonde ma espresse con leggerezza, le parole al posto giusto e anche dove non ci si aspetta. Ironia e sarcasmo da vendere (o prestare a quelli che non ne hanno).
Amo molto anche la copertina di questo libro. Come a dire: ognuno fa i passi che può, ognuno va avanti come può. E le cose sono diverse se si guardano dal punto di vista, per esempio, di un piccione.
L’unica cosa che non mi piace di questo libro sono le sigarette. Troppe sigarette. Il fumo fa male, basta, smettetela di fumare, e smettetela di sbuffare il vostro fumo addosso agli altri. Che poi magari dite loro “non prender freddo” perché non volete che si raffreddino, ma gli fumate intorno.
Cara Grazia, sai quella banalità che consiste nel dire “la tal cosa mi fa sentire vivo”? Che quando lo si sente dire può sembrare un po’ naïf, se non patetico. Eh be’, non è una banalità. Perché mentre leggevo il tuo libro, mentre ti scrivevo per dirti che mi era sembrato un gran bel libro, mentre controllavo le mie mail ogni dieci minuti per vedere se mi avevi risposto… mi sono sentita viva. E sentirsi vivo non è mai una banalità.
Un po’ come quelli, come il tuo Giovane Scrittore, a cui si fa credere che dovrebbero quasi vergognarsi di voler far parte del teatrino sopracitato ma che invece, se sono capaci, hanno ragione di bussare alla porta sul retro, quella dell’ingresso artisti (c’è scritto artisti ma si legga addetti ai lavori), e bussare, bussare finché non gli aprono. Perché va disincentivata l’ambizione degli incapaci, ma incoraggiata quella giusta dei meritevoli. Perché si ha il diritto di provare a essere felici (vedi sopra) e di voler sentirsi vivi. E tu lo sai, tant’è che nell’ultima linea del tuo libro, il piccione…
Manuela Corigliano