Picnic a Hanging Rock: la creazione di un mito
Picnic a Hanging Rock, rieditato dalla casa editrice Sellerio, è stato scritto dall’australiana Joan Lindsay nel 1967. Pubblicato, nella prima edizione originale, dalla casa editrice Cheshire Publishing di Melbourne e distribuito in edizione tascabile dalla Penguin Book nel 1970.
La vicenda ha origine il giorno di San Valentino del 1900, una caldissima giornata d’estate australiana. Le giovani alunne del severo Appleyard College, prestigioso istituto di istruzione superiore per ragazze altolocate, sono autorizzate a trascorrere la giornata in gita ai piedi della vicina catena rocciosa di Hanging Rock, imponente formazione geologica sita nel Sud dell’Australia, non lontano da Melbourne. Nel pomeriggio, tre delle allieve più grandi, Miranda, bella come un quadro di Botticelli, Irma, ricca e razionale, e Marion, intelligente e pungente, ottengono il permesso di allontanarsi dal gruppo per vedere la “Roccia” da vicino. A loro si accoda una quarta allieva più giovane Edith, sgraziata e piagnucolosa, che successivamente torna sola e in preda a un’acuta crisi di nervi, incapace di spiegare cosa sia successo alle sue tre compagne, inoltratesi lungo uno dei sentieri che si inerpicano su Hanging Rock. Durante le prime concitate fasi delle ricerche si scopre inoltre che anche l’insegnante di matematica Greta McCraw, quintessenza dell’aridità di un certo tipo di razionalità ottocentesca, è svanita nel nulla. Delle quattro scomparse, solo Irma sarà ritrovata alcuni giorni dopo sulla Roccia da Michael, ragazzo inglese di buona famiglia in vacanza, e dal suo cocchiere Albert. La giovane è viva e in buone condizioni fisiche, ma immemore di quanto accaduto. Resta dunque l’enigma di queste sparizioni.
“… il Mistero del Collegio, come quello del famoso caso della Mary Celeste, rimarrà probabilmente per sempre insoluto”: è con queste parole che si conclude l’opera di Joan Lindsay, degno finale di un romanzo che ha fatto del mistero il suo cuore pulsante. La versione attuale del romanzo infatti termina bruscamente al diciassettesimo capitolo con un (finto) estratto da un giornale di Melbourne del 14 febbraio 1913, nel quale appunto resta l’enigma di queste sparizioni. Eppure un finale esiste.
Al momento della pubblicazione del libro, l’autrice aveva acconsentito alla richiesta dell’editore di omettere il diciottesimo e ultimo capitolo, ritenendo preferibile un finale avvolto nel mistero, che non spiegasse troppe cose. Idea brillante, un colpo di genio commerciale, senza il quale, forse, il romanzo non avrebbe avuto la stessa risonanza. La decisione ebbe ripercussioni molto importanti anche al momento di trasporre l’opera sullo schermo.
Negli anni Settanta del secolo scorso John Taylor, in qualità di promotion manager della casa editrice che aveva pubblicato il romanzo, fu incaricato di gestire la questione dei diritti cinematografici. In pratica doveva incontrare i vari pretendenti alla realizzazione del film e decidere a chi fosse meglio affidare il compito. La sua scelta cadde infine sul regista e sceneggiatore australiano Peter Weir (tra le sue opere L’attimo fuggente e The Truman Show) che realizzò il film nel 1975. E proprio dalle parole di J. Taylor si evince quanto fosse importante, cinematograficamente parlando, l’assenza del diciottesimo capitolo:
“[cancellare il capitolo] fu una decisione puramente letteraria, ma gli storici possono ben affermare che il suo risultato indiretto fu la creazione dell’industria cinematografica australiana così come la conosciamo – perché è molto improbabile che ci sarebbe mai stata, nel 1972, una corsa all’acquisto dei diritti del film se il capitolo 18 non fosse stato cancellato. Come chiunque può vedere, il capitolo è assolutamente non filmabile. I film possono funzionare solo con ciò che gli ha dato Dio, e Dio non ha loro concesso la stessa flessibilità che ha garantito ai romanzi – sebbene la gente continui a fare tentativi, come i cumuli di scarti di pellicola continuano a testimoniare“.
Nel capitolo scomparso abbiamo a che fare con un livello di narrazione molto lontano da tutto ciò che precede nel libro. Non c’è infatti nulla nei primi diciassette capitoli, come pure nel film, che operi su un piano così totalmente fuori dell’ordinario. Esiste sì una sorta di sottotesto magico che percorre un pò tutto il romanzo (e il film) e che preme in più punti per affiorare, tuttavia in nessuna pagina ci troviamo davanti a qualcosa paragonabile a ciò che ci aspetta nel capitolo diciotto.
Leggendo attentamente e meno frettolosamente il terzo capitolo (quello che racconta la sparizione delle ragazze), ci si può accorgere che qualcosa nella storia non quadra e che vi siano delle curiose ripetizioni.
Prima troviamo scritto:
“Le felci lasciarono presto il posto a una fascia di arbusti folti e spinosi che terminava in una sporgenza rocciosa, tanto alta da giungere loro fino alla cintura. Miranda fu la prima a uscire dalla boscaglia […] Si ritrovarono su una piattaforma quasi circolare racchiusa tra rocce, macigni e pochi alberelli dritti. Irma scoprì subito una specie di feritoia in una delle rocce e contemplava affascinata, laggiù, il campo del picnic“.Poi, solo poche pagine dopo:
“Miranda avanzava per prima mentre le altre ragazze si dovevano aprire un varco attraverso i cornioli, ed Edith arrancava dietro a loro. […] La piattaforma semicircolare sulla quale adesso erano sbucate aveva quasi la medesima configurazione di quella più in basso, circondata di massi e di pietroni sparsi. Cespugli di felci gommose, immobili nella luce diafana, non proiettavano alcuna ombra sul terreno di secco muschio grigio. La pianura sottostane si vedeva appena, infinitamente vaga e lontana. Aguzzando lo sguardo tra i massi, Irma distingueva lo scintillio dell’acqua e minuscole figurine che andavano e venivano tra banchi di fumo rosato, o di nebbia“.
L’impressione è che la stessa scena, per qualche misterioso motivo, sia descritta due volte in due modi diversi. E poiché finiscono così per esserci due salite e due piattaforme semicircolari là dove ne esiste effettivamente solo una, la topografia nel romanzo non coincide più con quella fisica di Hanging Rock (con grave disagio per i tanti escursionisti che si sono cimentati nel ripetere sulla Roccia lo stesso percorso descritto nel libro).
Anche la soluzione di questo “enigma” si trova nella scelta di omettere l’ultimo capitolo. Infatti, nel rimaneggiare il romanzo per lasciare il mistero senza soluzione, alcune parti del diciottesimo capitolo sono state trasferite – senza grande perizia e con poca grazia – nel terzo capitolo. Probabilmente l’intenzione era quella di lasciare una traccia per condurre il lettore verso una possibile soluzione. Anticipazioni che sembrano preludere a una spiegazione soprannaturale.
Lo stesso Taylor, che conobbe la scrittrice nel 1972 durante le trattative per la cessione dei diritti cinematografici, dopo aver letto il romanzo, confessò alla Lindsay di aver notato delle incongruenze nel capitolo tre e di essere giunto ad alcune conclusioni. La Lindsay gli rispose che era stato uno dei pochi ad accorgersene. Alcuni mesi dopo gli consegnò una copia dattiloscritta del diciottesimo capitolo e, nel 1980, gli cedette il copyright sul medesimo testo con l’impegno a non rivelarlo prima della sua morte.
E proprio come richiesto dall’autrice, il capitolo diciotto vide la luce solo dopo la sua morte – tre anni dopo, per l’esattezza, nel 1987 – come parte centrale di un libricino in tre parti dal titolo The Secret of Hanging Rock, che comprendeva come testo introduttivo un saggio di J. Taylor The Invisible Foundation Stone e come parte finale un Commentario (A Commentary on Chapeter Eighteen) di Yvonne Rousseau. Quest’ultima aveva scritto nel 1980 un libro intitolato The Murders at Hanging Rock, nel quale proponeva una serie di possibili soluzioni al mistero della scomparsa, ciascuna basata su una diversa visione del mondo, partendo unicamente dai dati contenuti nel romanzo dal momento che ancora non era divulgato il possibile capitolo finale.
Come nasce un mito? Come si accende e si mantiene viva la fiammella dell’interesse di centinaia di siti internet, migliaia di articoli giornalistici, decine di migliaia di fan? Come si costruisce un long seller capace di attirare un pubblico assolutamente trasversale ed eterogeneo? Joan Lindsay con questo romanzo (sostanzialmente l’unica cosa degna di nota in una carriera oscura) è riuscita in tutte queste difficili imprese.
Nel tempo si è scatenata una vera e propria caccia alla soluzione di un mistero che in realtà neppure esiste, dal momento che il romanzo più che un mystery è una storia sui disagi personali, sui rapporti umani e sulla soprannaturalità emanata dai paesaggi australiani. Il primo elemento che induce in tentazione il lettore è ciò che l’autrice stessa ha preposto al testo vero e proprio:
“Se Picnic a Hanging Rock sia realtà o fantasia, i lettori dovranno deciderlo per proprio conto. Poiché quel fatidico picnic ebbe luogo nel 1900 e tutti i personaggi che compaiono nel libro sono morti da molto tempo, la cosa pare non abbia importanza.“
Questo ha scatenato la curiosità dei fan a caccia di conferme sui giornali dell’epoca. Ricerche vane, ovviamente. Inoltre non esiste un’opinione unanime degli appassionati sull’autenticità del diciottesimo capitolo. I contrari pensano che si tratti di una speculazione a fini di lucro dell’agente letterario J. Taylor. Tuttavia, il testo non solo sembra plausibile all’interno della logica dell’autrice, ma collima con ogni punto rimasto irrisolto e con le anticipazioni presenti nel terzo capitolo che sembrano preludere a una spiegazione soprannaturale.
Nel suo commento, Yvonne Rousseau fa risalire infatti la soluzione di J. Lindsay alla concezione del soprannaturale nella cultura degli aborigeni australiani, filtrata attraverso l’occultismo di matrice europea, con un richiamo alla percezione del tempo nel mistico russo Pëtr Dem’janovič Uspenskij. In particolare rivolge l’attenzione al Tempo del Sogno (Dreaming), sistema religioso, mitico e culturale su cui si fonda la visione del mondo degli aborigeni australiani. Il diciottesimo capitolo inizia infatti con queste parole:
“Sta accadendo adesso. Come è accaduto fin dal momento in cui Edith Horton è fuggita inciampando e urlando verso il pianoro. E come accadrà fino alla fine del tempo. La scena non cambierà mai, neppure per la caduta di una foglia o il volo di un uccello. Per le quattro persone sulla Roccia la recita avverrà sempre nel dolce tramonto di un presente senza passato. La loro gioia ed agonia saranno nuove senza fine.”
Benché sia ben scritto e presenti delle pregevoli descrizioni dell’atmosfera unica del paesaggio australiano e un’eccellente costruzione dei personaggi, chiusa l’ultima pagina di Picnic a Hanging Rock, ho percepito un forte senso di delusione. Inizialmente ho attribuito questa sensazione esclusivamente al libro, ma, in un secondo momento, dovendo esaminare tutto il contesto da cui risulta inevitabilmente condizionato il romanzo, mi sono resa conto di essere stata in qualche modo “suggestionata”. La scelta di creare un alone di mistero è stata sicuramente fortunata da un punto di vista commerciale, ma non da quello letterario. L’attenzione del lettore viene direzionata più sulla ricerca e la comprensione dell’enigma che sulla qualità del racconto stesso. Dal primo punto di vista non posso che rimanere delusa, non essendoci in realtà una vera e propria soluzione neanche nel diciottesimo capitolo. Ma, abbandonando ogni arcano condizionamento e soffermandomi esclusivamente sul testo, dal punto di vista letterario non posso non apprezzare la costruzione dei personaggi (ognuno presenta una sua caratura, una sua personalità e ha una funzione all’interno della struttura del racconto), l’analitica descrizione dei paesaggi e dell’atmosfera, e l’uso di un linguaggio classico e dovizioso. Mi chiedo, quindi, come sarebbe stata la mia lettura se non fossi stata condizionata dal mito…
Désirée Pallotta Nardi
Decisamente un caso letterario; forse, mi sembra di capire, la scelta di omettere l’ultimo capitolo, non era poi così sbagliata. E’ che, sapendolo, si ripongono delle aspettative anche troppo grandi nel finale. Mi ha colpito l’affermazione che l’attenzione del lettore è più rivolta ad arrivare a scoprire l’arcano, che alla narrazione in sé. A me succede così quando leggo un giallo o un thriller: tendo a divorare le pagine per sapere come va a finire e mi soffermo poco sulla costruzione narrativa. Questo è uno dei motivi per cui li leggo poco e forse mi perdo una bella fetta di buona letteratura.
Un post davvero interessante, complimenti. Ciao Pina