Lorenzo Crescentini e l’intercapedine fra sogni e incubi
Quando il buio sussurra, è meglio non ascoltare.
Il piccolo Teo lo imparò troppo tardi, quando ormai era perduto in un mondo di ombra e paura e nella stanza accanto il Lungo affilava i denti su una vecchia mola da arrotino.– Il Lungo [da Sogni e ombre, Lorenzo Crescentini, Augh!, 2017, p.49]
Sogni e ombre di Lorenzo Crescentini è una raccolta di racconti, e lo è nel senso più pieno di questo termine. Undici dei tredici racconti qui contenuti sono stati pubblicati fra il 2013 e il 2016 su riviste e antologie, e sono ora riuniti in un unico volume che funge solo da contenitore e non ha alcun’intenzione di mostrare un fil rouge.
Sappiamo quanto siano importanti le aspettative nell’approcciare a un libro. E quindi approcciare in questo modo, con la consapevolezza che le tredici storie sono – davvero – tredici storie slegate e non parti di un qualche mosaico da ricostruire, ci permette di vedere i racconti uno per uno come ciò che sono.
Cosa sono, allora?
Le storie di Crescentini sono sguardi. Sguardi su ciò che siamo, su ciò che abbiamo all’interno, sulle nostre paure, sul mondo che in maniera strana e subdola ci circonda senza che si possa far nulla per non esserne circondati. È un senso di claustrofobia che permea le pagine, e non per il mostro di turno, ma per la sensazione di inevitabilità, di essere posti su un binario che deve necessariamente finire dentro quel pozzo oscuro, e che non ci sia verso – per nostra impotenza o per forza degli eventi, poco importa – di spostarci altrove, di fermare tutto, di invertire la marcia.
Non è il mostro, si diceva. Perché di mostri ce ne sono, in questo libro, come il Lungo o la donna che vive dentro il bagno piccolo, ma ci sono anche racconti che passano dall’incubo a una dimensione onirica piacevole, al sogno rappresentato da Il teatro dei fantasmi. Il problema, quindi, non è ciò che accade, ma il senso che tutto sia già scritto, in qualche modo, o addirittura sia già accaduto, e non si possa far altro che osservare una registrazione degli eventi.
Così, ad esempio, Il Lungo. Non sappiamo come va a finire, ma ci troviamo nell’incipit del racconto – quello riportato in apertura di questo articolo – con una situazione già fatta e finita, di cui ci si può narrare solo, prima della fine, quale che sia, il lungo percorso che ha portato fino a quella precisa scena.
Non è un caso, a mio avviso, che molti protagonisti o oggetti della narrazione siano bambini. I bambini sono coloro che non hanno controllo per antonomasia, sono coloro che necessitano del supporto di qualcuno, che chiedono spesso aiuto, in bilico fra raziocinio ed emotività. Nel racconto La donna dentro il bagno piccolo, ad esempio, Jago combatte prima di tutto contro sé stesso, contro la percezione che ha del mondo, cercando di mutarla in quella consona del mondo degli adulti. Una visione in cui i mostri non esistono, in cui non c’è nessuna donna dentro il bagno piccolo, e la suggestione di un’infanzia ormai abbastanza lontana è ritornata prepotente solo per la prima notte in cui viene lasciato solo dai genitori.
Così il binomio è rappresentato anche nel primo racconto, Per i miei occhi, dove il protagonista – adulto – è un raziocinio deviato, come una parte del cervello che da sola non può funzionare bene, e ha bisogno della controparte emotiva per percepire il mondo nella sua completezza. Quella parte, ancora, è trasfigurata in una bambina. E poi, La bambina dell’oceano ha nella bambina del titolo la parte emotiva, che «continuava a guardare l’oceano» per il semplice fatto che fosse bello, per il semplice fatto che le piaceva farlo. E Ricardo, che è una razionalità in un mondo adulto, una razionalità che si autoimpone per la propria età:
Forse sarebbe stato suo dovere di adulto – già, perché ormai era un uomo adulto – chiamare la polizia e denunciare il ritrovamento di una bambina sola nella sua proprietà[…]
– La bambina dell’oceano [da Sogni e ombre, Lorenzo Crescentini, Augh!, 2017, p.202]
Se allora questa raccolta non ha un quadro univoco, va in mille direzioni diverse, è anche vero che ci si ritrova davanti a un’opera matura e consapevole, come se il percorso di Crescentini nei precedenti tre anni l’avesse portato – come un binario – inevitabilmente in una direzione, attraverso alcuni punti fermi che ritroviamo in questo libro. Dove non c’è solo orrore, non ci sono solo paure manifeste e materiali, ma anche uno sguardo talvolta dolce e ingenuo, lo sguardo di un bambino che guarda con occhi sorpresi a un mondo che non conosce, e che cerca con i propri mezzi di razionalizzare.
Maurizio Vicedomini