Sappiate una cosa: il 1986 è un anno importante. Nel 1986 usciva il primo numero di Dylan Dog, un test sbagliato scatenava un disastro nucleare alla centrale di Chernobyl, e in libreria arrivava la prima edizione di It di Stephen King. Dal 1986 a oggi è passata una vita. I primi lettori kinghiani sono cresciuti e hanno avuto successo (come i Perdenti di It), o si sono ritrovati falliti a quaranta anni, e a questi si è aggiunta una nuova schiera di sostenitori. Persone così diverse tra loro ma unite dall’idea che scoprire i romanzi di King era stata un’esperienza così forte da cambiare le loro esistenze. Per sempre.
Dal 1986 è passata un vita, è vero, però It è immortale, e grazie al film di Andrés “Andy” Muschietti sembra vivere una nuova primavera. Una stagione di celebrazioni e condivisioni sui social media. Pennywise, il clown danzante, non è morto. È emerso dal suo nascondiglio, nel cuore della terra, nel profondo dei nostri incubi, per ricordarci che la paura è reale, puzza di acque stagnanti e di merda. La paura è una macchia di nero nelle ombre, un rumore alle nostre spalle in una strada vuota di notte, è l’angoscia di non farcela, di fallire, di non avere speranze, ma è anche fede. Pennywise non ha alcun potere sulle persone se queste non credono nella sua esistenza. È per questo che i bambini sono prede facili. Nonostante i genitori abbiano insegnato loro che accettare cose dagli sconosciuti è sbagliato, i più piccoli non hanno perso l’innocenza e la capacità di credere che un clown è sempre e solo un clown, e che se ti avvicini alla grata di una fogna puoi sentire la musica del circo.
Costruito sull’alternanza di piani temporali, It è la storia di sette ragazzi e del modo in cui esorcizzano la paura. Come tutti i grandi romanzi, merita di essere letto almeno due volte nella vita. Una prima, per gustarne la trama, per evadere, e la seconda per cogliere le sfumature e i significati nascosti tra le righe. Al pari di molte altre opere di Stephen King, racconta il quotidiano, le persone comuni, la provincia americana con tutte le sue contraddizioni; in questo caso, la provincia ha il nome di Derry, nel Maine, in cui il male ha infettato la terra causando fatti di sangue e violenza che si ripetono con ciclicità nel tempo. La storia dell’uomo è legata a It, una creatura cosmica così vicina ai modelli lovercraftiani che tanto hanno influenzato la scrittura di King. Pennywise, la bestia, sembra infatti essere stato ispirato da un racconto di H. P. Lovercraft, Il modello di Pickman, la storia di un pittore che amava dipingere demoni dotati di un macabro realismo e di un segreto nascosto nei sotterranei della sua abitazione.
Paura. Libri e cinema.
Soggetto di una miniserie degli anni novanta, Pennywise è diventato un’icona dell’horror contemporaneo anche grazie al volto dell’attore Tim Curry, alla sua voce roca, alle zanne e gli artigli che bucavano lo schermo. In molti, dopo aver visto il film, hanno iniziato a guardare i clown in modo diverso. Chi è andato al cinema in questi giorni con l’idea di vedere una replica di quell’It ne sarà rimasto deluso: il pagliaccio di Muschietti, interpretato da Bill Skarsgård, non ha lo stesso impatto e assomiglia più a un mostro in carne e ossa, un “semplice” divoratore di bambini, che alla rappresentazione concreta della paura. La nuova pellicola non ha puntato su questo elemento per colpire il pubblico ma, forte di un ritorno ad alcuni temi tipici del romanzo di formazione, ha mostrato i Perdenti in modo magistrale. Ragazzi accumunati da un difetto, degli outsiders, forgiati con l’argento nella mente di King. Ci sono i Goonies nell’It di Muschietti, Stranger Things e la sperimentazione fatta dallo scrittore con il racconto Il Corpo (Stand by Me). Il nuovo It è un buon film e deve essere visto con un approccio diverso. Ha avuto il merito di avvicinare al romanzo e al mito persone che ne ignoravano l’esistenza, e al tempo stesso ha riaperto una ferita inferta dalla critica sulla pelle dello scrittore statunitense.
Nell’interrogarsi sulla natura del romanzo d’eccellenza americano, Luca Briasco (nel suo saggio Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea, edito da Minimum Fax) definisce It come un monolite piantato nel cuore del reaganesimo degli anni ottanta. Una fotografia della crescita e del cambiamento della società negli USA. Nonostante i suoi detrattori, Stephen King è forse uno degli autori più di successo della letteratura contemporanea. Ha scritto più di ottanta libri da cui sono stati tratti film e serie tv, e nonostante i premi alla carriera, nessuno di questi romanzi è stato mai insignito con un Pulitzer o con il National Book Award. C’è un velo di diffidenza intorno a King che ha il tanfo delle fogne di Derry. I critici e i denigratori fanno troppa fatica a capire che tutte le sue storie, anche se contornate da un elemento fantastico, raccontano la vita vera, le emozioni, i drammi delle persone comuni più di quanto altri autori abbiano mai saputo fare. I pregiudizi rendono ciechi, influenzano la capacità di comprendere il vero.
La verità è una sola.
Stephen King conosce i Perdenti, conosce tutti noi perdenti. Lui è il nostro capo. Lui è il Re.
Antonio Lanzetta
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