La perdita fa piombare addosso a Dario l’eredità paterna proprio nel momento in cui era occupato a contestarla, a mettere alla prova la sua consistenza, fatta di buona reputazione, ma anche di ambiguità. Nel lascito che lega un figlio a un padre stanno affetti non riconosciuti, ma anche un pericoloso equilibrismo tra il giusto e l’ingiusto, tra la fedeltà e il tradimento, tra un modo di vivere pubblico onorato e il sospetto di un caos segreto.
È questo segreto che Dario cerca di avvicinare, sentendolo come una parte oscura di suo padre, grazie alla quale si è guadagnato un potere sociale, ma anche una profonda solitudine, tale da allontanarlo dai figli, dalla famiglia, dagli affetti. Tra la rabbia e una violenta spinta all’individuazione, Dario Casaluce comincia a ricostruire il passato, un passato che pur alle spalle, è angosciosamente presente.
Dalla ricostruzione della storia paterna emerge una commistione molto organizzata col “potere”. Questo, sopratutto quando si identifica con l’apparato dello stato, possiede un volto di gesso composto dai volti dei burocrati che partecipano alla sua immagine. Bruno Larosa ne fa un catalogo con poche tinte, molto secche: il poliziotto alla Questura che infierisce sui giovani “fermati” (Dario si chiede se abbia dei figli), ma anche il Commissario Valente (distinto, in abito grigio e con un garbo inatteso, spiegabile dalla blasonata parentela del “trattenuto”). Il Giudice del processo per l’assassinio di suo padre governa la giustizia con «l’espressione di chi leggendo un giallo già aveva capito chi fosse il colpevole dopo il primo capitolo». Ma anche suo padre fa parte dell’affresco, prima come artefice, ora come vittima. Proprio in virtù di vittima, per Dario diviene oggetto di scoperta e di amore postumo.
Il momento di verità più alto per un uomo è nella caduta. Se – come ammette Amleto – c’è una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero, così Dario scopre che tutto il senso di una vita – di suo padre, ma anche della propria – si coagula intorno alla morte. È il momento in cui le parole cedono, cadendo anch’esse col corpo che le produce. Rimane solo la testimonianza di un uomo, il modo incerto e claudicante di condurre una vita sul filo tra luce e ombra, intrecciate come un tessuto fitto di desideri contraddittori e impossibili da condurre su una linea retta.
Sulla scorta della contraddizione di suo padre, anche Dario si assumerà la propria. Bruno Larosa di fatto allestisce un romanzo di formazione umana, una sorta di viaggio nell’ade come per Ulisse, un percorso a ritroso dove sia possibile già in vita farsi toccare dalla “morte”, non la morte come individuo, ma la morte “di stato” per come agisce stupidamente e in modo anonimo sul corpo sociale, corrompendo la coscienza. Senza avvertire questo tocco sulla propria pelle, è forse impossibile incontrare autenticamente la vita, innamorarsi, amare i propri figli, lasciare un’eredità di affetti.
Si avverte un certo stile “legalistico” nei dialoghi, in cui Larosa concentra il succo dell’azione narrativa, senza tuttavia corrompere la godibilità della lettura. Il percorso del protagonista è così dappresso al nostro sguardo letterario, che ogni giro di pagina fa sorgere la classica domanda: come continuerà il suo viaggio? Giunto al capolinea Dario farà la scelta che lo individuerà. Per amore della memoria del padre? Per una “amletica” gelosia del corpo della madre “profanato” da un estraneo? Per semplice affermazione di sé? Al lettore l’interpretazione che riterrà più opportuna, scontato il viaggio che il romanzo innescherà nel ricordo di ognuno, del passato, dell’orgoglio di aver meritato la memoria del proprio padre, della nostalgia di non poter più fargli le domande che avremmo voluto, le cui risposte ora spettano solo a noi.
Vincenzo Carboni
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