Los Angeles, 2049. Trent’anni dopo gli eventi del primo film, e trentacinque dopo la sua distribuzione nelle sale, il Blade Runner di questo 2017 mette in chiaro, ove mai ce ne fosse bisogno, qual è il punto di tutta la questione: non sono le predizioni scientifiche – o fantascientifiche, piuttosto – né tantomeno è la lotta di classe tra l’uomo e il replicante, tra un noi e un loro. Sì, la lotta di classe, che pure ha tanta importanza, direte voi, nell’universo di dickiana ispirazione, ma solo nell’ottica della definizione dei confini di
Gli androidi di Ridley Scott vivevamo solo quattro anni, un prezzo altissimo da pagare per poter amare più intensamente, desiderare più ferocemente, vivere più ardentemente; trent’anni dopo, i moderni replicanti odiano ancora più impetuosamente, piangono più sinceramente e scoprono cosa si prova a non avere un’anima e a volerne disperatamente una. E forse la macchina da presa non indugia con ancor più compiacimento sulle loro ferite, tanto che pare quasi che sanguinino addirittura di più?
Si gioca ancora tutto sulle contrapposizioni, questo capitolo secondo il genio di Denis Villeneuve, uno che conosce e rispetta l’opera madre, di cui intuisce il mistero e ce lo ripropone intatto, ma proiettandolo nel nuovo millennio. La sua creatura si rivela ancora con una ampia panoramica dall’alto: più che una cifra stilistica, è una dimostrazione di consapevolezza, di chi ha capito che il cinema, e la fantascienza, non si fa soltanto con i fatti e le parole, ma vive anche e soprattutto di immagini. Lo ha capito Villeneuve, come lo sapeva bene anche il suo predecessore, uno che ha sospeso per sempre Thelma e Louise al di sopra di un precipizio, ha rinchiuso un equipaggio nei labirintici corridoi di un’astronave, e ha confuso un androide in un ammasso di bambole. La somiglianza col noir più che con un film d’azione è confermata da tempi dilatati – anche tanto, ma è un inconveniente da poco – e dalle atmosfere, siano esse simboliche o meno: è tutto avvolto nei fumi della nebbia, nella pioggia notturna e nel sole che schiaccia e sfoca l’orizzonte. E ancora una volta, Blade Runner confonde il vero col falso, i ricordi con gli innesti, mescola il passato con il presente, la Atari e la Pan Am con la Coca-Cola, e affida quest’amalgama indistinto a un database più fragile della memoria umana, a un complesso di codici e circuiti passibili di azzerarsi sotto l’imprevedibilità di un black-out, e con essi tutta la storia recente.
Le strade sono ancora incastonate tra edifici altissimi, di cui si vede alternativamente la base o la cima, e chi sta in basso non riesce mai a vedere dall’altra parte. Ma la spazzatura è volata via col vento, le strade sono state ripulite, persino gli interni sono in ordine: razionalizzato e ridotto all’essenziale l’appartamento di K, inaspettatamente tirato a lucido il nascondiglio di Deckard, immensi e spogli gli spazi ascetici della rinata Tyrell Corporation, illuminati da una luce gialla di indicibile provenienza, angelicante, che li astrae dalla dimensione puramente terrena. Sono angeli, in effetti, i replicanti per Niander Wallace, colui che ha riscattato le sorti dell’impero e ha le movenze di un Jared Leto in delirio di onnipotenza, affiancato da una fedelissima Sylvia Hoeks spietata quanto un emissario del diavolo nonostante il nome che porta. Al di fuori di Los Angeles, però, tutto è come lo abbiamo conosciuto, tra le lande ricoperte di rifiuti a perdita d’occhio e la polvere che si alza in aria e pare quasi di respirarla, nella piantagione di Dave Bautista e nel deserto postapocalittico che è diventata Las Vegas.
Tutto si vende e tutto si compra, nel mondo del futuro. Non c’è nulla che non sia possibile procurarsi o, al limite, riprodurre, ma i piaceri sono consumati fugacemente e la merce raggiunge l’apice dell’inautenticità e dell’impersonalità. L’ologramma pubblicitario che adesca l’agente K per strada e pare conoscerlo intimamente, dopo un po’ se ne torna alla sua posizione, a guardare altrove, probabilmente in attesa del prossimo potenziale cliente, ricordandoci che niente è vero, niente è personale. Come il sesso, che si consuma squallidamente in edifici semitrasparenti, che rendono allo sguardo esterno la visione di ciò che accade all’interno, dove la promiscuità è incoraggiata dall’apparente mancanza di pareti e divisioni. Il servizio che offre una compagna su richiesta si chiama ipocritamente Joi, e la gioia che promette consiste in una partner olografica, standardizzata e uguale per tutti. Nel bailamme della vendita delle emozioni, è la donna la più mercificata di tutti: prostitute, ologrammi che giganteggiano per la città sotto forma di una amante nuda o di una ballerina, statue in posizioni equivoche e ammiccanti. Ma è nella figura della donna, paradossalmente, che 2049 effettua il ribaltamento dei ruoli. Se a muovere i fili è la triade Gosling-Leto-Ford, le sorti del mondo potrebbero non dipendere da loro, e sicuramente ci sarà sempre una donna sulla loro strada a tenergli testa. Il corpo a corpo tra Gosling e Hoeks è l’equivalente dello scontro finale tra Ford e Roy Batty, seppur non destinato a rimanere ugualmente nella storia, ma ugualmente immerso nell’acqua – lì era la pioggia purificatrice, qui è il mare (ri)generante: le metafore sulla maternità si sprecano. Al contrario, l’amore tra Gosling e Ana de Armas è più tenero e appassionante di quanto sia stato quello tra Rick e Rachel, e per quanto sappiamo che non possa mai oltrepassare la finzione non smettiamo di sperarci con tutto il cuore. E chissà, potrebbe anche essere una donna a sovvertire l’ordine vigente e disegnarne uno tutto nuovo.
Chi voglia vederci, anche qui, un’espressione di maschilismo e di mortificazione della donna ha completamente sbagliato strada. E chi voglia perdersi l’occasione di apprezzare adesso questo film probabilmente si ricrederà, un giorno. La storia che soltanto il tempo sancisce i capolavori ce l’ha insegnata proprio Blade Runner.
Andrea Vitale
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