Letture tematiche e nemesi letterarie
Ho comprato Nelle terre di nessuno a Pisa, stand della Minimum Fax, sarà quasi un mese fa.
Stavo leggendo Terre selvagge, l’ultimo del nostro Vassalli, così incredibilmente vicino alla poetica del primo (c’è tanto de La Chimera, e di chimerico, e di irrimediabilmente perduto). E poi ne prendo un altro, mi dico, per fare un acquisto tematico; e quindi nel trolley che da Pisa ridiscende a valle, a Roma, s’impila pure Terreni di Oddný Eir Ævarsdóttir, Safarà editore, due ragazzi venuti in fiera in camper da Pordenone, entusiasti, giovani (e quindi ancora illusi, come me, per fortuna).
Comunque. A un certo punto arriva il momento della lavatrice e del redde rationem delle nuove letture. Da una parte i panni sporchi che dalla fiera sull’Arno si bagnano in Tevere, o giù di lì, nel cesto di una lavatrice in quel di piazza Bologna, dall’altra il comodino, ovvero quella colonna che mi ricorda la torre di Pisa e l’altra turrita Babilonia e che s’erge proprio a qualche centimetro dal mio cuscino.
Nel frattempo Vassalli è terminato. Inizio Offutt, ne hanno parlato molto bene, tante foto, tanti blog, tanti hashtag. Segatura è il primo della raccolta.
Non succede niente. Che questo accada spesso nelle letterature contemporanee e che ormai la regola aristotelica che prevede una catarsi sia regolarmente violata non mi turba. È una regola (del finale disatteso, dell’intreccio negato) anche questa della nostra (di noi occidentali, di noi americani) letteratura da molto più di un cinquantennio, facciamo almeno dai primi decenni del secolo scorso.
Il punto è che nella scrittura (nella forma) mi sembra, leggendo, non succeda niente. Che sia questo il senso del titolo? E quindi faccio quello che ho imparato da quando lavoro con i libri (cioè poco): li lascio inconclusi, a formare nuove combinazioni cromatiche su quella colonna tortile riscattata dai severi natali svedesi che è, sempre, il mio comodino.
E allora ne apro un altro, chissenefrega della lettura (e dell’acquisto) tematico. Fresco fresco di stampa c’è un altro Rizzoli (Cfr. Vassalli, Terre selvagge, Rizzoli 2015), e cioè Jerusalem, 1500 pagine di Alan Moore, fumettista apostata e anarchico postmoderno. Forse per la befana l’ho finito, mi dico, e mi ricordo di chi, un mio amico, mi consigliava di leggere Wallace (Infinite jest) durante le feste natalizie, a me che lo iniziavo nei primi sudori estivi (e aveva ragione, gli preferii il cofanetto Einaudi di Faletti e lo rimandai, felicemente, al primo Natale).
Dicevamo, Alan Moore, Jerusalem.
Primo capitolo. Folgorante, come si usa (e abusa) dire. Così denso da richiamare un po’ di fiato, una lettura defaticante; insomma un raccontino facile prima di andare a dormire. La mano sinistra tasta la torre, ne saggia le crepe, i merli; e quello che c’è in cima, sceglie: Offutt, Nelle terre di nessuno.
Fuori non si vede quasi più la luna, dalla mia finestra intendo, e scorrendo l’indice l’occhio mi cade su Luna calante. Letture tematiche, sorrido.
E niente. La torre crolla, in faccia, sulla bocca, sui denti, sul naso. È un coro polifonico di Erinni incazzate, una nemesi accelerata della letteratura abbandonata, è l’ipostasi cartacea delle ragioni di Medea, è, anche, la ribellione del povero mobile Ikea.
Luna calante vale tutto il libro, anche se non l’ho ancora finito, anche se è il secondo racconto che leggo dopo uno dei più brutti della mia vita. Anche se Luna calante ancora, mentre la torre crolla (e la terra trema, terremoto tematico), ancora non l’ho finito.
Luna calante, ora che Nelle terre di nessuno l’ho terminato, è tutto il libro. E certo, di Chris Offutt non se ne può che parlare molto bene. Tante foto, tanti blog, tanti hashtag.
Tanto sangue. Ovunque. E allora capisco il perché della segatura, e di questa (sempre inappuntabili le grafiche Minimum) copertina vermiglia. Mi viene in mente il corridoio di Shining inondato da Kubrik. Già. Perché è in un’esondazione emorragica che si appresta ad annegare il lettore, all’improvviso, ma con un’onestà (e crudeltà) biblica. Annegherai, dopo la secca si apriranno mille leghe sotto di te, ricordati ora se sai nuotare, oppure torna indietro: sull’arenile, c’è il sole, puoi aspettare.
Attenzione, pavimento bagnato, noi la segatura all’ingresso, oltre al cartello, per avvertirti, ce l’abbiamo messa.
E mi viene in mente The Revenant, cioè la storia (anche) di un orso e di un cacciatore di pelli e del loro sangue. E allora cerco su Wikipedia se Inarritu si è ispirato a questo racconto, ma no, il libro è un altro, è Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta (2002, Einaudi nel 2014), Michael Punke, e allora rivedo The Revenant e mi dico che no, è falso, Inarritu ha fatto due ore di film (magistrale, per carità) su dieci minuti di racconto e insisto: questo, Luna Calante, deve essere l’antecedente letterario e no, a questo punto La storia vera di Hugh Glass non la leggerò mai, con buona pace di Punke.
E penso a McCarthy di Non è un paese per vecchi, ma anche, e soprattutto al Cormac di Figlio di Dio. E a una sorta di rivisitazione siberiana di Sergio Leone, un Tarkovskij post Stalker convertito al remake del western hollywoodiano, perché i paesaggi (le colline) di questo racconto (di questa raccolta di racconti) sono coaguli di cinismo e sopravvivenza cristallizzate in inquadrature incattivite dal tempo. Che passa e non passa.
Perché c’è un vecchio che racconta una storia molto più vecchia di lui, ma che è una storia di oggi, perché quel vecchio che racconta è morto (c’è un registratore che parla accanto al suo corpo, e davanti c’è un prete che ascolta, in piedi). Perché il sangue è di ieri e di oggi e, volenti o nolenti, lo sarà anche di domani.
Perché Vassalli scriveva che tutti i cadaveri dei soldati morti nella battaglia dei Campi Raudii (romani contro cimbri, 101 a. C.) ancora alimentano le risaie di Vercelli e i boschi di Proh, ai piedi del Monte Rosa. E il sangue di un orso e di Rose e di Clabe e di un puma (sì, anche un puma, e il suo miagolio graffiato, e i suoi cuccioli) colorano ancora le rocce di Shawnee Rock, in questo Kentucky affollato di vento e di nulla che è l’America di Offutt. Perché sempre Vassalli scriveva che ci sono dei periodi, nella nostra storia, per cui guardare avanti bisogna voltarsi. E lo scriveva a fine libro, in Congedo. Domani. Dopo tutto quel sangue su quelle terre selvagge; ed è forse memore di questo insegnamento che quella sera senza luna (dalla mia finestra) ho chiuso Moore e riaperto Offutt, a cui avevo voltato le spalle. E per la forza delle letture tematiche, e del sangue.
Tommaso Castellana