Negli anni della guerra civile, in Virginia, giù negli Stati Uniti del sud, una bambina trova un soldato yankee ferito, disperso nei boschi. Lo trae in salvo con sé, portandolo nel collegio in cui vive insieme alla direttrice, un’insegnante e altre quattro ragazze. Solo donne, quindi, ma un unico uomo è sufficiente per incrinare il debole equilibrio su cui la loro vita si regge. È l’incipit del romanzo L’inganno, di Thomas P. Cullinan, ad oggi riadattato in due trasposizioni per il grande schermo, quella omonima del 2017 e la La notte brava del soldato Jonathan del 1971, e di queste due, probabilmente, nessuna basta da sola a rivelare lo spirito del romanzo.
Più fedele al libro è sicuramente la prima, firmata da Don Siegel, a cominciare dal maldestro tentativo di far sentire allo spettatore i pensieri dei protagonisti, secondo una prassi talmente obsoleta da rivelare in un attimo tutti gli anni che il film porta su di sé. In effetti, fa sorridere quasi quanto il titolaccio che gli fu appioppato dalla distribuzione italiana; ma neanche la traduzione dell’opera scritta è completamente affidabile: The Beguiled è, letteralmente, l’ingannato, rendendo palese fin da subito chi, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere la vittima. Il film di Siegel non ha intenzione di ripulire i suoi personaggi dagli aspetti più sconci, più abbietti e deprecabili, così come l’autore se li era immaginati: Edwina è invasa da una forza rabbiosa quando compie il gesto che condurrà il soldato alla rovina e di cui non si pente sul colpo – non prima, cioè, di avergli scagliato addosso un bel po’ di ingiurie – come invece suggerisce l’interpretazione di Kirsten Dunst; nel caporale John McBurney di Clint Eastwood arde un istinto sessuale che si palesa già dai primi momenti, e per il quale sembra meritare il castigo finale; dulcis in fundo, Martha Farnsworth è la direttrice incestuosa, che ammonisce le alunne di giorno mentre di notte sogna con passione il fratello, andatosene via dal collegio per chissà quale motivo (ma una breve allusione ci fa supporre che sia stato costretto ad allontanarsi). Di tutto questo Sofia Coppola decide di fare tranquillamente a meno, soffiando via quel clima di frustrazione sessuale che nel romanzo, al pari del film che l’ha preceduta, era così tangibile, e tanta parte aveva avuto nel tracciare il destino del protagonista maschile. L’ingannato, appunto: se la signorina Farnsworth cui dà corpo Geraldine Page poteva essere sospettata – come del resto le sue coinquiline sembrano fare – di aver mutilato il suo ospite con crudo compiacimento, per aver visto respinte le sue avances con indifferenza, lo stesso personaggio interpretato da Nicole Kidman, quarant’anni più tardi, respinge da sé ogni ombra di dubbio. Nessun rapporto peccaminoso con qualche membro del proprio albero genealogico, nessun pensiero licenzioso a sfiorarle la mente: la sua Martha è una direttrice irreprensibile. Del resto, anche l’insegnante Edwina, da un’attrice all’altra – cioè da Elizabeth Hartman a Kirsten Dunst – diventa più teneramente romantica e sognante quanto è ferocemente vogliosa di conoscere il corpo maschile.
È a questa spregiudicata malizia, a questa eccitazione ferina che la regista americana rinuncia, preferendo puntare a un altro tipo di tensione, meno fisica e più ansiosa. Peraltro, non è l’unica cosa di cui si sbarazza: c’è una domestica, una serva di colore che dal romanzo finisce anche nel film di Siegel, che è un pezzo importante in quello scacchiere che è il piccolo collegio; la sua presenza non ha un’effettiva incidenza sulla narrazione – e il film di Coppola dimostra, da questo punto di vista, che se ne può fare benissimo a meno – ma dà al quadro il tocco di colore definitivo: l’istituzione femminile nata dalla penna di Cullinan riproduce, in piccolo, l’intera Confederazione d’America, conservatrice, isolata nel ricordo di sé stessa, fiera, razzista, brutale e ormai in decadenza senza i suoi punti di riferimento. Così è il microcosmo del collegio insidiato dall’intromissione inaspettata del caporale, lo straniero, su cui, in barba alla Storia, si prenderà una segreta rivincita, e che dunque non è possibile comprendere fino in fondo senza ogni tassello. Ricordate le intrusioni improvvise degli alleati, che rischiano di sovraccaricare l’eccitazione sensuale e collerica già annusabile nell’aria? E che ne è della ragazza che tenta di attirare l’attenzione dei soldati di passaggio senza essere vista? Dalle critiche suscitate dall’operazione di whitewashing la regista americana si è difesa affermando di aver cancellato dal plot la figura della domestica per non mostrare al giovane pubblico quella faccia dell’America nera. Ma non era la sua America che doveva rappresentare, bensì l’America della guerra di secessione, l’America di tutti, com’era allora e com’è ancora adesso.
È, per questo, l’opera di Sofia Coppola da considerarsi meno valida rispetto al film del 1971? Nient’affatto, no. Strano a dirsi, ma pur col bagaglio di dettagli in meno, e nonostante la minore adesione al testo, la sua trasposizione si spinge laddove quella di Don Siegel non era riuscita ad arrivare. Kirsten Dunst è più credibile nel suo malinconico sprofondamento nei sogni infranti, Elle Fanning è più fascinosamente spregiudicata, Colin Farrell è un seduttore più astuto e un avversario più temibile di quanto Clint Eastwood sia stato. Misinterpretazione a parte, nella versione passata a Cannes quest’anno Nicole Kidman potrà pure non essere abbastanza cattiva e Colin Farrell non sarà abbastanza ingannato, ma nel complesso guadagnano tutti in carattere. Nel complesso, infatti, perché Coppola ha capito bene che doveva puntare all’ensemble e non lasciare nessuno a far da sfondo: i personaggi minori, che nella pellicola di Siegel rimanevano puri ornamenti e decisamente ininfluenti nell’economia di gruppo, adesso fanno sentire uno a uno di esserci, di stare sulla scena, nella casa: ebbene, l’intesa su cui poggia il castigo inflitto al soldato, così come i dissapori e le diffidenze che il suo arrivo aveva suscitato, sono tutti più autentici ai nostri occhi.
Di più, la regista de L’inganno non dimentica l’importanza dell’ambientazione nella costruzione della personalità delle donne, che compone attraverso un surplus di dettagli, di orpelli e strumenti che La notte brava non conosce, riprende i suoi attori in piani mai troppo grandi da oscurare le stanze nelle quali si muovono, e recupera al collegio quel senso di isolamento quasi sprofondandolo nella vegetazione e nella nebbia: la separazione dal resto del mondo si fa visibile e metaforica insieme, e intanto nessuno oltrepassa il cancello per recarsi all’esterno: Geraldine Page poteva uscire per interrogare i soldati di passaggio o per viaggiare in carrozza, ma non vedremo mai Nicole Kidman mettere piedi fuori dalla sua proprietà. La permanenza di John McBurney rischia allora tanto più di logorare la coesione di una piccola comunità che vive di ricordi di grandezza e di illusioni su un futuro che non arriverà mai, di cui la casa, nascosta e sottratta al contatto col territorio circostante, è emblema e roccaforte, e dove persino le erbacce che crescono incolte puzzano di decadenza. La rivincita che le inquiline si prenderanno sul loro ospite e sull’avanzata del progresso storico è pertanto solo apparente: scacciando lo yankee che avevano inizialmente sperato di poter accogliere, crederanno di aver preservato la propria incolumità, e con essa l’orgoglio e le buone maniere che si trascinano appresso, ma non sanno che saranno loro a rimanere ancora sepolte tra gli specchi incrostati e i gioielli che non indossano più.
Andrea Vitale
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