Se volete sapere perché si ama la letteratura, leggete l’incipit di Novecento di Alessandro Baricco. Se volete sapere cos’è la scrittura, quella che non si spiega, che non si insegna, che non si impara, quella che “lui può e un altro no”, leggetelo:
Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire… Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi… Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo… la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte… magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni… alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare… e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America. Poi rimaneva lì, immobile come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l’aveva fatta lui l’America. La sera, dopo il lavoro, e le domeniche, si era fatto aiutare dal cognato, muratore, brava persona… prima aveva in mente qualcosa in compensato, poi… gli ha preso un po’ la mano, ha fatto l’America…
Quello che per primo vede l’America. Su ogni nave ce n’è uno. E non bisogna pensare che siano cose che succedono per caso, no… e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino, quello. Quella è gente che da sempre c’aveva già quell’istante stampato nella vita. E quando erano bambini, tu potevi guardarli negli occhi, e se guardavi bene, già la vedevi, l’America, già lì pronta a scattare, a scivolare giù per nervi e sangue e che ne so io, fino al cervello e da lì alla lingua, fin dentro quel grido (gridando), AMERICA, c’era già, in quegli occhi, di bambino, tutta l’America.
Lì, ad aspettare.
Novecento è un monologo teatrale pubblicato da Feltrinelli nel 1994, portato in scena fin dallo stesso anno, e poi adattato per il cinema da Giuseppe Tornatore con il bel titolo La leggenda del pianista sull’oceano. È una delle storie più poetiche che abbia mai letto.
È la storia di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, abbandonato appena nato su un piroscafo che solca l’oceano dall’Europa all’America e dall’America all’Europa. Viene abbandonato sul pianoforte della sala da ballo della prima classe, certamente con la speranza che qualcuno, ritrovandolo, possa dargli un futuro. Viene ritrovato da un marinaio. Diventerà un pianista eccezionale e non metterà mai piede sulla terra ferma.
Il narratore è un altro musicista, un trombettista in servizio sullo stesso transatlantico, depositario di questa storia che, come dice l’autore, valeva la pena di raccontare.
Ci sono tante cose, in queste poche pagine.
C’è la filiazione e la paternità: un marinaio che trova un neonato e lo prende in braccio e così diventa padre, lo diventa in un attimo, come un’evidenza. C’è il destino. C’è l’amicizia fra il narratore e il protagonista. C’è la costruzione della propria identità per un uomo che non esiste per l’anagrafe di nessun Paese, eppure è vivo e sta in equilibrio sulle onde e suona il pianoforte come nessun altro, e conosce il mondo attraverso il potere dell’immaginazione assorbendo immagini e odori di quella parte di mondo che vede sfilare sulla nave. La vita di un uomo che non sa o non può o non vuole mettere radici. Che non hai mai visto nient’altro che mare e l’unico motivo che un giorno gli fa pensare di voler scendere dal Virginian è quello di voler vedere il mare (ma da un altro punto di vista). Ci sono le frontiere reali o immaginarie, esteriori o interiori. C’è anche l’eco della Storia, con le guerre, e con i poveracci della terza classe che emigrano e si cuciono un vestito coi tessuti delle tende e delle lenzuola durante la traversata.
Dal 6 ottobre e fino al 20 gennaio 2018 lo spettacolo è in scena a Parigi al Théâtre Montparnasse. Nel ruolo del narratore-trombettista un bravissimo André Dussollier, capace di interpretare la parte drammatica del testo ma anche la vena più ironica e leggera. Il pubblico è trasportato dal suo talento, così come dalla bravura dei musicisti che l’accompagnano e, naturalmente, dalla brillantezza di un testo magistralmente tradotto e adattato (anche se non c’è traccia sulla locandina, ça va sans dire, del nome della traduttrice).
Novecento è un personaggio delicato, onirico, misterioso, che non perde mai una sorta di sua purezza infantile e fa della sua vita una bella metafora. E in questo, a pensarci bene, è simile al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. In quanto a geografia sono invece agli antipodi anche se in realtà è la stessa parabola: il Piccolo Principe proviene da un asteroide e arriva sulla Terra dopo aver visitato vari pianeti, mentre Novecento non ha mai toccato terra nemmeno sul suo di pianeta. E poi, entrambi decidono di andare via…
Manuela Corigliano
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Novecento non ha eguali, per non parlare del film, assolutamente un monumento cinematografico! Sono assolutamente d'accordo su quanto scrivi, l'incipit di Novecento è da brividi. Ciao e ben trovata
Ciao Sarino!!! Grazie di avermi letta e grazie del tuo commento! Manuela