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“La poesia lirica è tanatoestetica”: Ambienti saturi di Fabio Donalisio

Ambienti saturi (Amos edizioni, A27 poesia) è un effluvio lirico, un pensiero che si finge grezzo, da cui la poesia sgorga ininterrotta e scivola tra le pagine agevole alla vista, meno (fortunatamente) alla lettura.
È un ritmo che inganna con la sua incalzante spigolosità concettuale, che invita a proseguire nella lettura per cercare un senso ed è questa ricerca che ti spinge freneticamente ad arrivare fino in fondo, in un’apnea accomodata dallo scorrere calligrafico (nessuna maiuscola – in risposta a Giudici che ne fece suo veicolo poetico – da far impallidire anche i punti fermi, defraudati del loro potere assassino di troncare la frase).
E tu lettore mangi parole, smanioso di sapere e di sviscerare l’arcano che si cela dentro l’inchiostro, trituri verbi e legami sintattici, macini versi senza poterti fermare, risucchiato da quel flusso verbale che è corrente poetica.

Gli spazi – spazi fisici, spazi locali (perché è in una casa che la poesia di Donalisio dimora) – si susseguono facendoti vagare per quella che quotidianamente percorri, in cui silenziosamente vivi: la casa. L’intimità poetica è stipata nell’intimità domestica: i versi esigono un loro posto e ti accolgono nell’antico vestibolo dal sapore classico e arcaico per condurti con la stessa scioltezza in una passeggiata lirica a metà tra il gioco di parole e il citazionismo, attraverso un dimesso cucinino, passando per la zona notte e, per ultimo, il ripostiglio.
Ti senti perduto negli spazi quotidiani, negli spazi di sempre, ma ora diversi perché profanati da parole poetiche che senti tue, ma che tue non sono: le hai acquistate, puoi dominarle. Le frasi s’innescano a cascata e demoliscono, infedeli, il pensiero portante che vorresti trovare: è un linguaggio sincopato che rifugge appigli.

Ancora brancoli linearmente alla ricerca del senso: deve essere rimasto indietro, incagliato forse in qualche enjambement avventatamente sorpassato o sottovalutato; era la fretta ti dici, rifiutando di imputare la mancanza di un abbordabile significato ad una tua negligenza, e allora riparti, con più calma, con più attenzione, meno presunzione, arrendevole alle parole e agli a capo.

Non è facile lasciarsi ammansire, dalla poesia dico: la lettura s’impenna, s’arruffa, il testo si piega a fatica, devi starci dietro, assecondarlo.
È questa la bellezza poetica di Donalisio: la sua cripticità elusiva e fuggevole, quel senso in potenza plurimo che si attiva e al contempo annulla verso dopo verso, e che “il lettore collochi, qualora ne sentisse la necessità, tale linguaggio nel tempo e nello spazio” – eccolo il monito dell’autore – : è una lotta verbale, una lotta fonetica fatta di assonanze e bisticci, in cui la parola esige il primato.

Volendo legare parte di questi versi a un’esperienza personale – faccio credito affinché il lettore si fidi delle mie parole – vi racconterò un episodio.

L’appartamento di mia nonna è al quinto piano di un alto condominio e la finestra della cucina s’affaccia su una strada con una piccola fermata del bus. Da piccola, tutti i giorni alla stessa ora, vedevo avvicinarsi alla piazzola di sosta una giovane signora che faceva pochi passi e si fermava, si voltava e spingeva lo sguardo a terra insistentemente, come se le fosse caduto qualcosa e lo stesse cercando. Lo faceva ripetutamente e sistematicamente, procedendo, vittima di questo automatismo, anche per diversi metri. Quando, la primissima volta che la vidi, chiesi a mia nonna il perché di quello strano comportamento, lei non seppe spiegarmelo, ma mi disse che lo faceva sempre e che probabilmente era una malattia quella che la costringeva a voltarsi dopo aver percorso pochi passi. Mi stupii molto e spesso, vedendola, fantasticavo su cosa questa signora potesse aver realmente perso.
Donalisio ha dato inconsapevolmente risposta a un mio quesito infantile:

ogni tanto si ferma, come
per esaminare cose che non esistono.
bruscamente si volta, non c’è nulla
alle sue spalle, ma tuttavia ha
la sensazione che qualcosa sia
scomparso, che un essere abbia
bruscamente deciso di astenersi
dall’esistere

Claudia Corbetta

Claudia Corbetta

Claudia Corbetta nasce a Bergamo nel 1995. Frequenta il liceo scientifico su consiglio dei genitori nonostante l’animo e il cuore siano sempre votati al settore umanistico. Un infortunio arresta la sua carriera atletica da quattrocentista ma le permette di avere più tempo per leggere, scrivere e perdersi in pensieri cavillosi. La sua dichiarata passione per la letteratura la porta a iscriversi alla facoltà di Lettere Moderne di Milano. Legge romanzi e ama la poesia. Ha sempre ritenuto la scrittura una parte fondamentale della sua vita. Giustifica il suo piacere di notomizzare attraverso il linguaggio con una citazione rivisitata di Thomas Mann, per cui se l’autore dei Buddenbrook sostiene che “l’impulso a denominare” equivarrebbe a un “modo di vendicarsi della vita”, la sua giovane età la porta ingenuamente a sostenere che per lei esso sia in realtà un “modo di conoscere la vita”.

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