Nel 1908 Gaëtan de Clérambault aveva trentasei anni ed era psichiatra presso la Prefettura di Polizia di Parigi. Ventiquattro anni più tardi, Le Figaro scrive: «Sembra che le malattie mentali siano contagiose. Non si vive impunemente a contatto con i pazzi». Il famoso psichiatra si era suicidato da appena tre giorni.
De Clérambault – già maestro di Jacques Lacan – fu il primo a introdurre la categoria diagnostica di automatismo mentale, una forma di psicosi caratterizzata dall’emergere di un pensiero sentito come alieno, capace di introdursi a forza nella coscienza. Questi fenomeni sembrano svilupparsi da soli, provocando la necessità di scaricare l’eccitazione che innescano, esautorando allo stesso tempo l’IO del soggetto.
Il celebre psichiatra conduce gli interrogatori alla Infermeria Psichiatrica della Prefettura di Polizia, con lo scopo di formulare una diagnosi medico-legale sullo stato di pericolosità sociale, per decidere tra ospedalizzazione o sanzione penale. Una di queste arrestate – Marie – ha quarantanove anni, vedova, con i genitori entrambi suicidati. Ha un figlio di trentadue anni. Afferma che le è sufficiente sentire pronunciare la parola seta, perché le parti intime vadano in eccitazione. Ha riportato ventisei condanne per furti nei Grandi Magazzini. Nel 1904 si rileva il furto di un abito di seta da bambino, arrotolato e nascosto tra le gambe, con un lembo del quale si masturba, guadagnando in ascensore il massimo piacere. In tribunale rifiuta di rispondere. «Non devono fare altro che non esporre la seta – afferma – e io non prenderei nulla».
Dal punto di vita del documento letterario, nei diari clinici De Clérambault impone alla scrittura una coerenza con l’oggetto osservato: rinuncia spesso al verbo, fa sintesi estrema accostando periodi secchi, similmente alle registrazioni giudiziarie. Lo stile ha una cornice rarefatta e algida, facendo da specchio retorico alla fredda ripetizione aneddotica delle accusate.
Non rimane che la registrazione di un catalogo “alieno” di atti ripetuti senza coscienza, come se il soggetto fosse un guscio vuoto, in grado di essere manovrato da un oggetto. Istinto di morte, principio di piacere e coazione a ripetere si legano in una rappresentazione oscena, in cui la soggettività lascia il campo al corpo squassato da una compulsione. Questa costringe a un pensiero impossibile sia il medico che la vittima, giacché questo guscio femminile – simile ad un manichino in vetrina – non ha linguaggio, né significante che possa dirlo, ma solo un movimento-segno ripetuto fino alla consunzione.
«Delle nostre relazioni, di questi interrogatori delicati ai quali mi forzate – confida una malata in un abbandono struggente – mi resta l’impressione che voi siete restato uno dei primi uomini che ho potuto rendere spontaneamente partecipe del mio piacere. Ne sono sicura, solo un uomo sensibile ai piaceri delicati dati dalle stoffe può ascoltare queste confessioni». Lo sguardo dello psichiatra rivela una partecipazione che va al di là di un interesse solamente professionale.
De Clérambault fu fotografo dilettante; trascorse molto tempo in Marocco, fotografando donne arabe completamente nascoste da un articolatissimo drappeggio, eccetto per la fessura concessa agli occhi. Si calcola che abbia scattato circa quarantamila fotografie, oggi depositate negli archivi del Museo dell’Uomo di Parigi. Cosa cercava? Cosa lo univa nella passione alle sue donne malate?
Di fronte all’enigma, lo psichiatra che vuole penetrarlo non può che lasciarsi “mordere”, con il risultato di rimanere preso egli stesso. Ma se la donna è nel “godimento”, cosa per cui è sensibile all’estasi di una sensualità corporea diffusa, lo psichiatra cerca di poterne “dire”, con il risultato di rimanere a sua volta imprigionato dentro il piacere femminile, che – per quanto si possa provare – è fuori dal simbolico.
Se dal versante femminile è tutto un “non so”, “non posso resistere”, è tutto un catalogo di stoffe inebrianti (senza poterne dire alcunché, se non che si prova rapimento ed è irresistibile), De Clérambault oppone da medico un complesso tentativo di diagnosi, e da fotografo l’immagine del drappeggio. Entrambe le esperienze di osservazione sono unite nello scienziato da un fantasma che media il contatto con una realtà indecifrabile, quello del corpo completamente sostituito dalla stoffa.
Queste sagome non hanno più niente di organico, sembrano indipendenti. I corpi attraverso la stoffa istituiscono una dimensione neutrale dell’esperienza erotica, di cui si ha così orrore da doverla ridurre a minutissime parcellizzazioni, dominate da spasmi impossibili da rilassare (la carne si contrae, taglia il respiro, attualizza la morte), quindi da ripetere in forma sempre più estrema, fino a porsi realmente lontano da eros e a stretto ridosso di thanatos.
De Clèrambault si suicidò davanti a uno specchio. Cosa lo spinse fino al quel colpo di pistola? Quale cosa ferì per ultima il suo occhio? Forse il suo stesso sguardo, spinto fino a capovolgersi su sé stesso, nel buio di un enigma incomprensibile. Nelle foto alle donne arabe, un unico sottile lembo di pelle è aperto allo sguardo ed è lo sguardo stesso. «Quelle stoffe animate esibiscono delle feritoie minacciose – scrive Alberto Castoldi in Clerambault stoffe e manichini – che racchiudono uno sguardo “altro”, ma di fatto negato dall’ombra che le disegna, così da costituire un unico enorme occhio vuoto». È sguardo di Medusa, è sguardo dell’uomo che precipita dentro la sua stessa estranea umanità.
Vincenzo Carboni
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