Per non dimenticare: “L’Inferno di Treblinka”

La memoria è qualcosa di prezioso. Nessuno di noi vorrebbe mai esserne privato e i morbi che più ci fanno paura sono proprio quelli che ci spingono a dimenticare chi siamo o, peggio, chi sono le persone che ci stanno a cuore.

Quando si tratta di memoria collettiva, la necessità di combattere la dimenticanza diventa stringente e doverosa, soprattutto se in palio vi è la possibilità di ricadere in errori che ci sono costati troppo: è per questo che le testimonianze diventano fondamentali quando il tempo sembra sbiadire anche i ricordi che più necessiterebbero di esser tenuti in vita.

Vasilij Grossman (1905-1964) – giornalista e scrittore sovietico di origine ebraica – votò la propria arte scrittoria alla nobile causa del “tramandare” e del “riportare”, affinché la nostra incredulità dinanzi a certi misfatti non restasse priva di conferme.
Arruolato come embedded – giornalista inserito nel corpo di spedizione dell’Armata Rossa -, Grossman narra con disarmante lucidità i crimini commessi dai nazisti presso il lager di Treblinka e li racconta in un esile volumetto L’Inferno di Treblinka (scritto nel settembre 1944), la cui snellezza contrasta con la densità dell’argomento.

treblinka

La crudeltà trova parole semplici, dirette e la limpidezza del racconto stupisce per la sua capacità di narrare vicende inquietanti e disumane: i fatti ci vengono narrati non diversamente da molti racconti e romanzi con la sola e fondamentale differenza che, nel nostro caso, ci troviamo dinanzi a testimonianze reali e che ci chiedono di esser esaminate in quanto tali.

Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità.

Ma i crimini non accadono, si compiono e per ogni vittima c’è sempre un oppressore che la rende tale.
A differenza di molti libri sulla Shoa, Grossman si sente in diritto di soffermarsi sulla figura dei persecutori, non facendosi alcuno scrupolo, laddove possibile, di mettere nero su bianco nomi e cognomi. Emergono figure grottesche e ai limiti dell’umanità, la cui descrizione diventa per il lettore un inevitabile punto di riflessione sulla natura umana e su dove l’incondizionato esercizio del potere potrebbe spingerci.

Le testimonianze sono disarmanti e ci inchiodano, infrangendo anche il più piccolo tentativo di minimizzare:

Tutti i testimoni ricordano la ferocia di un altro essere dal sembiante umano, una SS di nome Zepf. Era specializzato in bambini. Dotato di una forza erculea, quel mostro pescava un bambino dal gruppo, lo brandiva come una clava e gli sbatteva la testa per terra, oppure gli spezzava la schiena (…) (i testimoni) ne parlavano come di uno dei tanti, normalissimi casi dell’inferno di Treblinka. E dovetti rassegnarmi al fatto che quel mostro era esistito.

Si tratta di uomini qualunque, di persone in carne e ossa, con una famiglia e figli, macchiatisi di delitti osceni:

Sappiamo del giovane colosso Stumpfe, colto da irrefrenabili accessi di risa ogni qualvolta ammazzava qualcuno o un prigioniero veniva giustiziato in sua presenza. «La morte che ride» l’avevano soprannominato.

sorge spontaneo chiedersi, è umano colui che ride dinanzi alla morte?

Per quanti vorrebbero mettere a tacere gli orrori o cancellare ciò che è stato, lasciando che il tempo e la dimenticanza sedimentino sui ricordi, vi sono pagine, libri, autori che con la semplicità di un racconto riescono a restituire alle azioni commesse il peso che gli appartiene.

Claudia Corbetta 

Claudia Corbetta nasce a Bergamo nel 1995. Frequenta il liceo scientifico su consiglio dei genitori nonostante l’animo e il cuore siano sempre votati al settore umanistico. Un infortunio arresta la sua carriera atletica da quattrocentista ma le permette di avere più tempo per leggere, scrivere e perdersi in pensieri cavillosi. La sua dichiarata passione per la letteratura la porta a iscriversi alla facoltà di Lettere Moderne di Milano. Legge romanzi e ama la poesia. Ha sempre ritenuto la scrittura una parte fondamentale della sua vita. Giustifica il suo piacere di notomizzare attraverso il linguaggio con una citazione rivisitata di Thomas Mann, per cui se l’autore dei Buddenbrook sostiene che “l’impulso a denominare” equivarrebbe a un “modo di vendicarsi della vita”, la sua giovane età la porta ingenuamente a sostenere che per lei esso sia in realtà un “modo di conoscere la vita”.

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