Leggenda privata e quei tre Michele Mari
Vogliono tutti sapere chi sono, come se avermi sempre osservato non contasse nulla: l’idea è che io finga anche quando sono da solo, che mi muova e faccia gesti come uno che finge. Ma fingere cosa, se non c’è nulla de equo? «Scrivi!» E io non scrivo. Sono furbi: pensano che mi lasci tentare dalla possibilità di mentire ancora di più, e meglio, ma io so che è proprio in coincidenza con il massimo della menzogna che intendono sorprendermi, candido e ignudo nella mia stessa impudenza.
– Leggenda privata [Michele Mari, Einaudi, 2017, pp. 3-4]
Ragionandoci un po’ su, la sinossi ristretta all’osso dell’ultimo libro di Michele Mari, Leggenda privata, potrebbe essere qualcosa del genere: “Michele Mari ci parla di Michele Mari che racconta l’infanzia di Michele Mari”. Non ci parla di “sé” e racconta la “sua” infanzia. Qui l’autore, il narratore e il personaggio narrato al passato vanno distinti con molta più forza di quanto non accada in una normale autobiografia.
Il libro scritto da Michele Mari (autore), infatti, ci narra di un Michele Mari (narratore) che viene visitato da figure ai confini dell’orrore, riuniti in gruppi che chiamano Accademie. E le Accademie gli chiedono (al Michele Mari narratore) di scrivere il libro che stiamo leggendo, la sua autobiografia. Qui narra di Michele Mari (ragazzino narrato) che è plausibilmente il passato del Michele Mari (narratore), ma non possiamo essere certi della veridicità di quanto scritto, dal momento che – come ci insegna Svevo – scrivere è sempre mentire.
Pur sembrando uno sterile gioco retorico, questa distinzione viene imposta dallo stesso titolo. Leggenda privata. Si parla di una leggenda, di una costruzione ad arte, di esagerazioni, anche. Non di verità. Sebbene, come ogni leggenda, anche questa si basi su fatti accaduti e persone reali.
Di reale abbiamo senz’altro due personaggi. Enzo Mari e Gabriela “Iela” Ferrario, che rappresentano la vera materia narrata in questo romanzo autobiografico. Il piccolo Michele, infatti, viene narrato soprattutto in relazione ai genitori, ai loro insegnamenti, ai loro modi di essere, così che da Leggenda privata esca prima di tutto una scheda ben precisa di queste due persone.
Suo padre, Enzo Mari, è freddo, anaffettivo, incapace di dimostrare amore o attenzioni per il figlio, se non quando obbligato dal suo ruolo. Padre severo con l’ideale del vero uomo (contrapposto a culattina) che sa porsi sempre al centro dell’attenzione anche quando non ha meriti – fatto salvo che di meriti ne aveva avuti. Sua madre, Iela Ferrario, sempre distante, sommersa dai problemi, velata da una costante tristezza e dagli effetti dell’alcool. Fra questi due genitori, il narratore Mari vuole dipingere la sua infanzia come piena d’orrore, l’orrore che l’Accademia va cercando, quell’orrore che può e deve giustificare, in qualche modo, l’opera letteraria dello scrittore. Ma romanzo dell’orrore è anche – sempre in senso lato – quello della macrostoria, quella del narratore Mari che viene visitato da queste figure mostruose dell’Accademia in diverse stanze della casa, durante il sonno, e lo minacciano di ripercussioni se non avesse completato quel libro – Leggenda privata – nella maniera che più si confaceva a loro.
Ecco allora che potremmo immaginare l’esistenza – si fa per dire – di due Leggenda privata. Una il libro scritto da Michele Mari, l’autore, l’altra quella in composizione da parte di Michele Mari, il narratore. Versioni che potrebbero anche coincidere, ma che probabilmente differiscono della parte orrorifica al presente.
E di questa trivalenza – i tre Michele Mari – ne troviamo traccia speculare nel triplice nome che ha il personaggio nel libro. Michele, certo. Danilo – il suo secondo nome. E Gheri, uno strano nomignolo con cui l’Accademia sembra chiamarlo. Ognuno di questi nomi racchiude in sé particolari caratteristiche, tanto che Danilo diventa il nome segreto, quello su cui l’Accademia – crede il narratore – non ha potere. E lo trasfigura in Da lì no per impedirgli di entrare da una porta.
Ma al di là delle vicende biografiche – supportate nella loro verità di fondo da fotografie – Michele Mari costruisce anche un’autobiografia – una leggenda – letteraria. E così cita apertamente o in maniera più romanzata autori e libri, a formare una propria costellazione personale di padri putativi. E ancora cita eventi già raccontati in altri suoi libri, aggiungendo una seconda costellazione, quella personale, quasi a suggerire una discendenza diretta che è possibile cogliere solo – o soprattutto – da coloro che hanno una conoscenza almeno marginale della sua opera.
In chiusura, se è vero che l’Accademia – che divora la verità autobiografica e ne fa mito sui libri di letteratura – è in un certo senso un nemico estero e interno in questo romanzo, è anche necessario indicare come Michele Mari utilizzi ancora – come suo solito – un linguaggio dotto, forbito, accademico, a volte fin troppo spinto, capace di appesantire la lettura di un libro che di per sé non è complesso d’intreccio ma di rimandi all’esterno. Una prova efficace, insomma, di una certa letteratura potenziale che non è fatta (solo) di titoli e autori, ma anche di vicende, persone, esperienze, vite.
Maurizio Vicedomini