Mindhunter: metodologia di un predatore
John Douglas è stato uno dei primi profiler dell’FBI, probabilmente anche il più noto; nel suo libro Mindhunter: Inside the FBI’s Elite Serial Crime Unit., racconta come la caccia ai serial killer per poco non lo condusse alla morte. Diventato alla sua prima pubblicazione nel 1995 una pietra miliare per quanto riguarda i libri dedicati agli assassini seriali, per anni Mindhunter è stato irreperibile; da pochi mesi però è tornato in libreria con una nuova edizione per Longanesi, complice anche la serie tv targata Netflix.
Per catturare un serial killer bisogna entrare nella sua mente, capire i suoi pensieri, sezionare i suoi ragionamenti perversi e letali. Bisogna anticiparne le mosse. Per far ciò è necessario parlare con altri killer già in prigione. Da queste convinzioni inizia il lavoro di John Douglas, l’uomo che ha inventato il Criminal Profiling dell’FBI.
Per anni Douglas ha interrogato in carcere assassini, stupratori seriali, ha studiato le loro ossessioni e perversioni, guardando negli occhi il Male per cercare di fermare altri mostri. Nel libro si citano incontri con assassini dal calibro di Charles Mason, il più famigerato serial killer della storia, John Wayne Gacy, l’uomo che, travestito da clown, uccideva senza pietà.
Il lavoro di analisi di Douglas si basa su tre interrogativi fondamentali: Cosa è successo? Perché è successo proprio in quel modo? Chi può aver commesso questo specifico reato? Per giungere a profilo di un serial killer bisogna analizzare prima di tutto la scena del crimine andando oltre le apparenze ed entrando nel buio della violenza.
John Douglas racconta le sue esperienze, narrando anche i dettagli più impressionanti dei crimini, come il piacere che i killer provano nel manipolare e dominare le loro vittime sentendosi padroni delle loro vite; godono nello scegliere il modo in cui uccidere e metterlo in pratica è come dar vita alle loro più oscure fantasie. Affrontare il Male richiede impegno, dedizione, un coinvolgimento totale, le atrocità viste annullano ogni cosa, la vita lavorativa dei profiler mina, quindi, anche la vita privata ripercuotendosi sulla salute. Stress, problemi familiari e coniugali, il lavoro vissuto come una missione, la forza per affrontare le atrocità, rendono tutto difficile.
Si arriva al punto da sottovalutare ogni piccolo incidente domestico, ogni disavventura, perché nulla può paragonarsi a ciò che hanno patito le vittime.
Tratta dal libro di J.Douglas, nell’ottobre 2017 Netflix ha presentato l’omonima serie tv, ideata e diretta per quattro puntate su dieci da David Fincher del quale è evidente il marchio. Mindhunter si presenta come un thriller che non ha nulla di classico se non la messa in scena asettica e raffinata, con un bilanciamento dialogo-azione praticamente ridotto a zero, che è poi forse la vera carta vincente di quella che è con tutta probabilità una delle migliori serie prodotte da Netflix. Come dicevamo, la serie è basata sul libro di John Douglas, partendo dalla fine degli anni ’70 fino ai giorni nostri. Proprio grazie al suo talento e a quello del collega Robert Ressler è stato possibile creare dei profili specifici per determinate categorie criminali, appositamente intervistati e studiati per capirne la metodologia predatoria e i macabri retroscena.
La serie, giustamente romanzata, racconta le sfide professionali e personali di questi due grandi agenti. Il protagonista della serie non è Douglas, ma il personaggio è ispirato a lui; l’agente si chiama Holden Ford (Jonathan Groff) ed è un esperto in negoziazione (uno di quegli agenti che viene mandato a parlare con i criminali che prendono degli ostaggi durante i loro colpi), si rende conto durante uno di questi episodi di negoziazione che non sa veramente molto su cosa e come pensano i criminali e forse potrebbe impararlo meglio direttamente da loro. Affiancato da Bill Tench (Holt McCallany) i due tentano la strada della psiche, quella via non ancora battuta che cerca di inquadrare un criminale come un essere umano palesemente deviato, e di risalire così all’origine al male. Ecco, quindi, che assassini e stupratori non sono più esseri da mandare al più presto sulla sedia elettrica, ma prodotti di una società distorta e malsana: una visione alquanto rivoluzionaria. Ai due agenti, in un secondo momento, si aggiunge anche la psicologa Wendy Carr (Anna Torv) che cercherà di rimpostare gran parte della teoria di base di queste ricerche che, con poca fantasia, rimanda tutto al sesso. I vertici però non vedranno di buon occhio queste ricerche, trovandole faziose e accondiscendenti verso i criminali. Siamo in un’America, dopotutto, che ancora trema per l’omicidio di Sharon Tate. Presentare studi approfonditi volti a dimostrare come, probabilmente, alcune azioni efferate possano essere teorizzate o “giustificate” porta dunque a un significativo terremoto nel sistema di giustizia americano. I nomi dei protagonisti sono stati cambiati, ma quelli dei serial killer sono reali, anzi gli attori sono il più possibile simili fisicamente ai personaggi da loro interpretati.
Ed è così che in Mindhunter mette in scena la più grande e brillante sequela di assassini mai vista al cinema o in tv: David Berkowitz a Charles Menson (in realtà solo citati), Richard Speck a Jerry Brudos, Monte Ralph Rissell e l’omicida-necrofilo Edmund Kemper. Non trattandosi di un’opera di finzione, ogni dettaglio riportato da questi personaggi è realmente accaduto, anche se non sono in realtà molto chiare le modalità di ammissione ai detective di tali dettagli. Gli investigatori giocheranno costantemente con loro come il gatto e il topo, con lo scopo di stanare intelligentemente il loro vero Io nascosto, assecondando anche esplicitamente alcune insane pulsioni sessuali per analizzarne la genesi e comprenderne così il necessario sconfinamento nell’atto di uccidere. E tra tutti questi serial killer psicopatici, il più interessante, meglio sfruttato e ritratto è Kemper. Improbabile se non impossibile provare quindi empatia anche per uno solo di loro: Il personaggio di Ed Kemper interpretato magistralmente da Cameron Britton, ha qualche cosa di straordinario, senza ombra di lode. Decapitava le sue vittime, abusava sessualmente dei cadaveri, li sezionava e poi li gettava all’interno di una valigia in qualche strapiombo. “Big Ed”, così era chiamato, era un ragazzone che tutti consideravano inoffensivo e incapace di fare del male, con un quoziente intellettivo di 136, timido e introverso, cercava sempre di conquistare la fiducia delle sue vittime così come dei poliziotti tanto che non è mai stato scoperto dalla polizia. Fu lui a costituirsi per gli omicidi commessi. In grado di fornire un profilo analitico di se stesso, convincente e per nulla giustificatorio, i suoi lucidi racconti hanno permesso all’ FBI di sviluppare il concetto di “serial killer” e di indagare da un altro punto di vista. Un personaggio a suo modo rivoluzionario e importante.
Vi invito a trascurare l’ansia e leggere il libro di Douglas di nuovo in libreria o se preferite di seguire una serie tanto innovativa a modo suo, bella e complessa, perché si parla di uno dei prodotti più raffinati del 2017 da poco concluso.
Anna Chiara Stellato