Maschilismo, razzismo, bullismo: la vetrina politica degli Oscar
Non molti giorni fa progettavo di scrivere un articolo diverso da quello che state per leggere, finché una notizia non ha catturato la mia attenzione. Nel senso che ne sono stato completamente assorbito, e nelle ore e nei giorni successivi alla sua diffusione mi sono trovato involontariamente a pensarci più volte. Vi spiego di cosa si tratta: Paul Thomas Anderson, Guillermo Del Toro, Greta Gerwig, Christopher Nolan e Jordan Peele. Se non la riconoscete, questa è la cinquina dei nominati alla miglior regia per i prossimi Oscar. Non è insolito che un appassionato di cinema si soffermi a pensare alla prestigiosa cerimonia di premiazione più di quanto faccia un individuo comune, né è insolito che si vadano a cercare spasmodicamente in rete notizie sull’evento; la parte inusuale di tutto questo è chiedersi perché uno sì e l’altro no, e cosa sarebbe cambiato se Nolan fosse stato, che so, sloveno, e Greta Gerwig non fosse stata una donna.
Un appassionato di cinema probabilmente avrà visto anche la cerimonia dei Golden Globe lo scorso 7 gennaio, e avrà notato con quanta acredine Natalie Portman annunciava i registi candidati nella rispettiva categoria: «And here are the all male nominees». Tutti uomini. Niente Dee Rees, niente Kathryn Bigelow, niente Sofia Coppola. Quella del regista è sempre stata una professione spiccatamente maschile. Per esempio, voi quante donne registe siete in grado di ricordare? E riuscite a dire, di queste, quante sono mai state candidate all’Oscar? Dovreste farcela, tanto è facile: soltanto quattro. Lina Wertmüller, Jane Campion, Sofia Coppola e la già menzionata Bigelow, l’unica a vincere finora. E da quest’anno sono cinque.
Greta Gerwig è una brillante promessa del cinema indipendente, musa di Noah Baumbach e già notata da Tarantino: prima attrice, poi sceneggiatrice, e ora anche regista, passata dietro la macchina da presa per dirigere questo Lady Bird che ha fatto incetta di riconoscimenti in tutte le premiazioni che contano. Chi scrive non ha dubbi, Greta Gerwig ha del talento. Altrettanto sicuro, però, mi sembra il fatto che una simile congiuntura socio-politico-culturale, come quella che stiamo vivendo, abbia favorito la sua candidatura. E il punto, delicatissimo, è proprio questo.
Nell’anno del #metoo, di Harvey Weinstein e Kevin Spacey, di Ashley Judd e Rose McGowan, della protesta che ha infiammato Hollywood e dintorni e che, a quanto apre, non accenna a diminuire, le cose iniziano finalmente a prendere una nuova direzione. Già prima che si alzasse il polverone, Patty Jenkins è diventata la prima donna a girare un blockbuster con un budget di oltre 800 milioni: anche le produzioni multimilionarie, prima, erano una faccenda da uomini. È allora cosa buona giusta che le donne di tutto il mondo facciano sentire la propria voce e un’artista come la Gerwig abbia il posto che le spetta – un posto che probabilmente non avrebbe avuto senza un 2017 così decisivo per la settima arte.
E se invece fosse il contrario? Se quella nomination fosse soltanto un contentino per mesi e mesi di protesta, di marce e cinguettii sui social? Sicuramente troverete chi vi dirà che è stata candidata solo per far contente le donne, e non vi nego che l’ho pensato anch’io; ciò non significa che non meriti di stare in quella cinquina, nient’affatto, ma sospetto che ve l’abbiano inserita solo per non alimentare ulteriormente le fiamme, e non perché sia stata più brava di Steven Spielberg o Ridley Scott.
Insomma, il dilemma è se sia stata nominata per meriti propri o soltanto in quanto donna, e mentre mi arrovellavo in simili congetture sono arrivato a chiedermi quale importanza abbia. Ricordate la vittoria di Moonlight appena l’anno scorso? In molti dubitarono che avesse vinto solo in quanto film che parla di neri, di omosessuali, di emarginati, ideato da un afroamericano, diretto da un afroamericano e con un cast interamente composto da afroamericani. Non si potevano fare due chiacchiere da bar che l’obiezione subito saltava fuori. E allora? Gli Oscar sono sempre stati una vetrina politica e lo specchio del cambiamento dei tempi, ed è giusto che sia così. Talvolta i
riconoscimenti non vengono assegnati esclusivamente in base a meriti intrinseci, e non c’è da dispiacersi se chi giudica di tanto in tanto ha un occhio di riguardo per un’opera che ha qualcosa in più da dire. D’altronde, se volessimo dar retta alle giurie di tutto il mondo, l’intera storia del cinema sarebbe da riscrivere. Halle Berry non è diventata più celebre di Marilyn Monroe soltanto perché la prima ha vinto la statuetta e l’altra no, ma di certo il primo Oscar a un’attrice protagonista black segna un traguardo memorabile.
Il caso vuole che anche i registi afroamericani candidati al titolo siano diventati cinque appena quest’anno, e solo due tra questi hanno diretto una pellicola che poi è stata acclamata come miglior film (Steve McQueen e Barry Jenkins), ma nessuno di loro si è mai portato a casa il premio. Vuoi vedere che anche Jordan Peele sia stato messo lì in rappresentanza della categoria? E che Scappa – Get Out non sia quel gran film che vogliono farci credere? Che sia un film sopravvalutato lo penso da quando l’ho visto: per quanto non sia tra i suoi detrattori, mi colloco un tantino al di sotto della critica che lo osanna da dodici mesi a questa parte. Personalmente, mi piacerebbe vedere un giorno un cinecomic concorrere per un premio che non sia per il sonoro o gli effetti speciali, ma sono in grado di fare due più due per capire che gli Avengers non hanno bisogno di altra pubblicità, come non ne ha bisogno Spielberg, e come non ne aveva bisogno La La Land.
Mi rendo conto, a questo punto, che quel che avevo in mente di scrivere al principio non è tanto diverso da ciò che sto cercando di dire adesso. Mi veniva da chiedermi, infatti, come mai una pietra miliare della comicità come Goldie Hawn, che non si vedeva sullo schermo da ben quindici anni, sia tornata a recitare nel 2017 in un film così deludente come Fottute! (Snatched in originale). Mi sono tornate in mente le parole del suo personaggio nel Club delle prime mogli, quando afferma che al cinema, per le donne, esistono solo tre ruoli: gattina sexy, procuratrice distrettuale e A spasso con Daisy. Per un’attrice che abbia superato i 60 le opportunità non sono molte, a meno che non ti chiami Meryl Streep o Judi Dench. Ma tutte le loro colleghe, tutte quelle donne del calibro di Whoopi Goldberg, Bette Midler, Sigourney Weaver, Sissy Spacek, Faye Dunaway, Shirley MacLaine (e la lista potrebbe continuare) dove sono finite? Perché sono condannate ad accettare parti marginali in film con scarsa distribuzione o a sparire dalle scene?
Sapete cosa vi dico? Non m’importa se la nomination di Greta Gerwig sia un gesto simbolico o meno. Possiamo credere che qualche altro nome sarebbe stato più appropriato del suo, ma non crediamo che gli uomini siano più bravi delle donne solo perché in giro ci sono più registi che registe. E se all’inizio dovremo storcere il naso e pensare “ce l’hanno messa solo perché è una donna”, ben venga anche questo. Da qualche parte bisognerà pur cominciare a rompere la tradizione. Magari un giorno ci sembrerà talmente normale vedere una donna candidata all’Oscar per la regia che non ci faremo neanche più caso al fatto che si tratti di una donna. E quel giorno non dovremo neanche più scrivere articoli come questo.
Andrea Vitale