L’afanisi dei Re: Edipo e Mr. Arkadin
Orson Welles e Sofocle si scrutano. Mr. Arkadin in Rapporto confidenziale (1955) e Foster Kane in Quarto potere (1941) sono magnati della finanza, ma anche uomini senza storia. Hanno in comune con Edipo qualcosa di guasto, una tara esistenziale che un evento inaspettato scatenerà. Se Edipo sa portare il peso della sua verità, Arkadin e Kane inaridiscono intorno al nucleo segreto di sé. Kane si chiude nel gigantismo simbolico rappresentato dalla sua reggia, contenente – come una mente che non vuole dimenticare niente – tutti gli improbabili oggetti della sua vita: tutti, dai giocattoli dell’infanzia ai manufatti d’arte che colleziona con fame bulimica. Dove la certezza di essere stati amati viene meno, si moltiplicano i feticci; le donne diventano presto ornamenti destinati a vegliare un piedistallo. Arkadin cerca di tirare fuori la figlia dal suo enigma e chiede al proprio demone di non contagiare la sua stessa carne.
Questi uomini sono condotti alla tragedia dal male che covano in segreto. Se Edipo è nella vanità di una lotta senza speranza contro un “peccato” che sempre lo precede, in Kane la richiesta di riconoscimento non si placa mai, tanto da esaurire prima gli amici, poi la sua donna, infine sé stesso. Se Kane e Arkadin di fatto sono bocche che divorano sé stesse, Edipo è bocca che – abbandonata ogni dicibilità del misfatto – è grido, ritorno neonatale al grembo incestuoso che l’ha generato.
Si tratta di personaggi la cui grandezza sta nella caduta senza compromessi al fondo di sé. Se Edipo preferisce al bene la verità («Perché sapere la verità?» lo incalza Giocasta), Arkadin mette in piedi un complesso sistema di sorveglianza di sé stesso. Il grande magnate ha paura del testo alle proprie spalle, contenuto nei testimoni della vita di criminale, tutti perduti di vista. Ora ha un nome nuovo, ma è molto conosciuto, essendo un finanziere potente. I sembianti del suo essere sono yaghts, limousine, ville, soldi. Arkadin è un uomo sorvegliato. Il mondo sorveglia sempre chi ha molto potere, e colui che lo detiene sorveglia sé stesso per il timore di perderlo. Tuttavia la sua ossessione è perdere l’amore di sua figlia, al cui sguardo vuole continuare a essere un padre amorevole e integro. Incarica un losco contrabbandiere americano, Van Stratten, di stendere un rapporto confidenziale sul suo passato che dice di non ricordare più.
Chi si crede sé stesso è convinto di conoscersi già, come se la propria ontologia fosse un premio alla lotteria. Il premio che avrà – dirà Van Stratten nell’incipit del film Confidential report – sarà solo una coltellata alla schiena. Quel Re che chiese ad un poeta “Cosa potrò darti delle mie ricchezze?”, si sentì rispondere: “Tutto, tranne il loro segreto”. La conoscenza di sé non è mai ultima. Smotta, si erode, slitta e all’uomo non resta che fare di necessità virtù: disconoscersi sempre, smentirsi, prima che a farlo sia la vita, giacchè la conoscenza ultima sarà la morte. Chi è Gregory Arkadin? Chi è Edipo?
La prima inquadratura di Confidential report è un aereo che vola senza pilota. È il sarcofago vuoto del magnate, la sua protesi di gigantismo, che volando troppo in alto, ha bruciato le sue ali. Lo spettacolo della morte però, ha la nuance di una dissolvenza, in cui dall’immagine del soggetto araldico, si passa all’assenza, all’afanisi. Il termine, dal greco aphanisis, vuol dire “scomparsa”. È utilizzato da Jacques Lacan per spiegare la “sparizione” del soggetto, a causa della mancanza simbolica che affligge il parlante. Per quanto siamo immersi nel linguaggio, inevitabilmente ci scontriamo con il fatto che “qualcosa manca”, che non esiste parola che possa una volta per tutte significare come vorremmo la nostra esistenza.
L’esperienza di afanisi (o “tramonto soggettivo”) è una perdita di messa a fuoco, di caduta dei confini conosciuti. Per mantenere l’immagine regale agli occhi di sua figlia, deve cancellare le tracce dell’ombra, tenuta a bada col denaro. Il perturbante del proprio passato è l’inconscio, la cui rimozione mostra le sue falle, giacchè non può appartenere solo al soggetto ma anche a ciò che sta tra noi e l’altro, vale a dire al linguaggio.
Sia Edipo che Arkadin hanno un’incertezza fondativa sulla propria origine. Se Edipo vuole andare fino in fondo, Arkadin piuttosto cancella le tracce del passato, tali da inchiodarlo ad una reputazione comprata a peso d’oro e fondata sulla copertura di un trascorso da criminale. Tiresia sarà per Edipo ciò che Van Stratten è per Arkadin, cioè il testimone della verità del soggetto. «Viene da te il tuo male – dirà Tiresia a Edipo -. Non vedi quanto sei nemico tu ai tuoi cari». Van Stratten per questo dovrà essere ucciso, giacché – dopo la morte di tutti i testimoni – è l’ultimo a conoscere la verità. «Io – ammette Edipo – pensavo di essere il farmaco, sono la malattia. Pensavo di essere Re, sono l’assassino del Re». Non possiamo combattere il male come fosse un nemico. L’impuro è lo straniero che ci abita.
È la storia dello scorpione e della rana che Arkadin racconta alla festa in maschera nella sua reggia. Dov’è la logica dello scorpione nel pungere la rana sulla quale guada il fiume? La conclusione è che l’uomo vive sia secondo “logica” (gliela fornisce il binario di linguaggio), sia secondo una forza insopprimibile che lo porta a deragliare continuamente in una zona extrasimbolo, che Arkadin chiama “carattere”. La domanda è: quanto di scorpione e di rana c’è in noi? «Io non so chi sono» confessa Arkadin a Van Stratten.
L’origine è qualcosa di impadroneggiabile. Edipo Re, come il suo epigono wellesiano, è una tragedia sulla trasmissione di un’eredità. Arkadin sentendosi affondare nelle acque del suo passato, non può permettere di trascinare con sé sua figlia. Le offre il braccio del fool Van Stratten, un uomo stupido, così stupido da accettare l’incarico di un assassino sotto forma di un lavoro ben remunerato, alla cui ombra deporrà la propria vita. Malgrado tutto Van Stratten guadagnerà qualcosa dal suo sporco lavoro, ma non sarà la promessa ricompensa in dollari sonanti e esentasse. Capirà che per essere uomo dovrà assumersi anch’esso l’afanisi di sé come soggetto, la stessa che Arkadin non è stato capace di sopportare.
Tutti saremmo degni di un “rapporto confidenziale” e malgrado ciò avremmo di che maledire il suo redattore, colpevole di rendere così pubblica la verità segreta di un uomo. Piuttosto di una spia ben pagata, avremmo bisogno di un amico che – conoscendo la verità – testimoniasse di noi, della nostra contraddittoria esistenza. L’eredità che lasciamo è un segreto ben noto che non è possibile nascondere, di cui è possibile solo chiedere perdono.